1917
l’orrore della guerra raccontato attraverso il fascino della tecnica
Non c’è scampo o via di fuga. Lo spettatore che in sala si trova davanti la nuova pellicola di Sam Mendes, è costretto a seguire in ogni passo i due protagonisti di 1917, camminando al loro fianco nelle trincee della Grande Guerra, tra distruzione e morte. La natura però è in grado di offrire ancora alcuni sprazzi di bellezza, su cui il regista talvolta si sofferma per donare un po’ di respiro.
Il film segue le vicende di due giovani, William e Tom, che ricevono dai superiori l’ordine di portare un importante messaggio dall’altra parte del fronte occidentale.
Proprio come nel precedente Dunkirk di Christopher Nolan si tratta di una corsa contro il tempo per salvare la vita di tantissimi soldati durante uno dei due conflitti più sanguinosi della storia.
Ma se in quel caso il regista aveva deciso di giocare su tre linee narrative, quella aerea, marina e terrestre, Mendes invece punta sul piano sequenza, eliminando così il montaggio e dando l’illusione che chi guarda si trovi davanti a un’unica ripresa, o meglio due, dal momento che circa a metà del film è evidente una cesura netta. Tale rottura è dovuta al fatto che questa tecnica cinematografica particolarmente immersiva crea un forte legame tra lo spettatore e il protagonista, le cui prospettive finiscono per coincidere. Di conseguenza quando quest’ultimo sviene, anche lo sguardo di chi sta osservando si spegne, perdendosi per qualche istante nel buio.
Come già in Nolan, l’utilizzo abile della forma non impedisce all’opera di poter contare anche su un contenuto in grado di trasmettere emozioni forti. Quest’ultime non sono suscitate semplicemente dall’adrenalina della missione da compiere, ma dalle vicende personali di questi giovani uomini chiamati a sacrificarsi per il proprio Paese, anche se con la mente restano profondamente legati alle proprie famiglie. Per loro vincere la guerra significa principalmente poter tornare finalmente a casa.
Infatti, ciò che spinge veramente uno dei due soldati a impegnarsi in quella che appare da subito come una missione estremamente pericolosa è il fatto che tra quei ragazzi che rischiano di morire c’è anche suo fratello.
Non a caso un elemento ricorrente, che rievoca la nostalgia, sono le fotografie che i soldati conservano gelosamente, e che accomunano sia gli alleati che i nemici. In un mondo iperconnesso come il nostro, in cui siamo sommersi da contenuti visivi disponibili in qualsiasi momento, suscita tenerezza il modo in cui questi ragazzi di un secolo fa si aggrappavano a quelle immagini sbiadite e impolverate, in grado di riportarli con la mente al calore dell’affetto familiare. In particolare in una guerra estenuante, fatta di lunghe attese, come quella di logoramento, le foto rappresentavano l’unico legame che avevano potuto portare con sé, e ricordavano anche il vero motivo per cui combattere.
A tal proposito, uno dei dialoghi più densi di significato è quello in cui i due compagni discutono di una medaglia al valore che qualche tempo prima William ha deciso di barattare con una bottiglia di vino. Quando l’amico stupito gli chiede perché abbia fatto un simile scambio, che risulta quasi blasfemo, ribatte che aveva più bisogno di bere piuttosto che di indossare un inutile pezzo di metallo. Una risposta cinica, ma che nasconde un semplice verità in grado di smontare in poche parole qualsiasi retorica sull’eroismo.
Inoltre, subito dopo il discorso si sofferma sulla sofferenza provata durante i permessi di ritorno a casa. La consapevolezza di dover ripartire, infatti, finisce per risultare addirittura peggiore del sollievo offerto dalla possibilità di rivedere la propria famiglia e riprendere una vita normale per qualche giorno. Dopo che ci si è abituati, per quanto possibile, alle trincee, provoca angoscia sapere che si tratta di qualcosa di temporaneo, e forse anche degli ultimi momenti trascorsi insieme. Così si preferisce resistere e aspettare di tornare soltanto quando tutto sarà veramente finito.
Tutto ciò evidenzia l’assurdità di una guerra che manda uomini a morire, in cambio di medaglie all’onore che hanno la pretesa di offrire conforto alle famiglie, ripagandole per le perdite subite. D’altra parte, come ha rivelato lo stesso regista durante un’intervista, la sceneggiatura nasce dalle storie del nonno che ha combattuto durante la Prima Guerra mondiale, ma il fulcro del film non vuole essere il patriottismo, bensì la lotta per restare vivi in quell’inferno, in cui spesso gioca un ruolo fondamentale la fortuna. Quello che interessa a Sam Mendes non sono gli eroi e le imprese gloriose ma la forza dei legami, sia familiari che d’amicizia, che costituiscono il vero motore dell’azione. A sottolineare ancora di più questo aspetto è la scelta del cast, in cui si è deciso di affidare a due attori meno conosciuti la parte dei protagonisti, mentre i comandati hanno il volto di star note, che però compaiono per la scena per pochi minuti. Le vicende personali dei soldati dei ranghi più bassi, gente comune con poco potere decisionale, diventa così il centro dell’attenzione, mentre gli uomini dei piani alti vengono ridotti a comparse all’interno di quelle che sono forse anche le scene meno riuscite, dove a prevalere è una certa retorica.
Proprio per non sovraccaricare una storia già densa, infatti, talvolta sarebbe stato preferibile evitare alcuni fronzoli narrativi, privilegiando un racconto più scarno, che lasciasse ulteriore spazio a immagini capaci di veicolare da sole significati profondi in maniera efficace.
La storia cerca di risultare ancora più coinvolgente tramite sequenze spettacolari, ma poco realistiche, o dialoghi che a volte scadono nella banalità e sono un po’ troppo enfatici. Così le parole finiscono per appesantire, risultando eccessive e invece che essere d’effetto e rafforzare la narrazione, la impoveriscono.
In realtà i momenti più emozionanti non sono legati ai combattimenti, ma quelli che si soffermano sui volti dei soldati, a volte poco più che ragazzini, chiamati a far parte di un’impresa molto più grande di loro, trascinati da una parte all’altra e la cui vita dipende interamente da decisioni prese dall’alto.
Tra corse, morti scampate per un soffio e nemici in agguato, alcune scene di pace riescono a equilibrare la tensione provata dal protagonista e dallo spettatore. Tra queste spicca quella ambientata in un rifugio in cui si nascondono una giovane e un neonato, che funge da momento ristoratore per William, ormai ferito e provato sia fisicamente che dentro per l’orrore che ha dovuto affrontare. Il valore di questa sequenza, che inizialmente può apparire un po’ forzata, in realtà ben si ricollega ai momenti finali, in cui dopo ore estenuanti il giovane si concede qualche attimo di riposo per guardare la fotografia della propria famiglia.
Una certa importanza la rivestono anche le scene in cui i personaggi si trovano in mezzo a una natura che sembra resistere alla distruzione circostante,come quella in cui il protagonista si lascia trasportare da un corso d’acqua mentre una pioggia di petali gli cade sul viso. O quando poco prima di un importante attacco un gruppo di soldati si ritrova ad ascoltare uno di loro che sta cantando, godendo così di un attimo in cui dimenticare il posto in cui ci si ritrova e ritornare alla normalità, quiete prima della tempesta.
A incorniciare visivamente una pellicola dalla forte carica emotiva, oltre a una regia che trascina lo spettatore nella storia, un ruolo molto importante è dato dalla fotografia, che crea dei giochi di luce e ombre in grado di dar vita a immagini affascinanti che contrastano con l’orrore della guerra. Una tra tutte, una scena notturna che in cui i lampi delle esplosioni appaiono quasi come fuochi d’artificio, uniche luci in grado di rischiare una notte buia.
A dispetto del titolo, infatti, che potrebbe risultare freddo, in quanto semplice numero che indica l’anno in cui tutto ciò avvenne e rinvia anche alla corsa contro il tempo, la storia di tanti giovani uomini costretti a confrontarsi con gli orrori di una guerra che li strappò alle loro famiglie, non può lasciare indifferenti. Soprattutto quando si trovano alla mercé di comandanti il cui unico obiettivo è combattere, non importa se per una missione suicida, e che anzi sembrano quasi voler dare un senso alla vita proprio attraverso la morte. E nel raccontare questa storia l’abilità del regista è stata quella di non aver realizzato un narcisistico sfoggio di stile utilizzando il piano sequenza, ma nell’aver messo la tecnica al servizio della narrazione, offrendo un punto di vista personale in grado di far sentire lo spettatore vicino ai protagonisti, in forte empatia con le loro paure e sofferenze.