Giovanna Nappi
pubblicato 1 anno fa in Recensioni

“Vita e morte di Adria e dei suoi figli” di Massimo Bontempelli

tempo perduto o ritrovato

“Vita e morte di Adria e dei suoi figli” di Massimo Bontempelli

Ma Adria per essi non era una donna. Erano, anzi eravamo, per gradi diversi, una setta religiosa. Ci è venuto a mancare il visibile idolo. E la setta si è dispersa.

Adria è dotata di incredibile bellezza: il suo incedere tra i comuni mortali incute reverenza, ammirazione, estasi. L’attesa del suo arrivo è di per sé un evento bramato con curiosità famelica. È lei la giovane e straordinaria protagonista del romanzo Vita e morte di Adria e dei suoi figli, che Massimo Bontempelli finì di scrivere a Parigi nel 1930 e che fu pubblicato lo stesso anno, tornato in libreria grazie a Utopia editore.

Di questa donna atipica si potrebbe dire, in verità, molto poco. Ci si può approcciare a lei solo in forma contemplativa: non sorprende che il suo charme travolga indistintamente amici, sconosciuti e persino familiari. Tullia e Remo, i figli di Adria, hanno la concessione di vedere la propria madre una sola volta a settimana, affinché lei possa dedicarsi alla cura di sé stessa e alle proprie attività quotidiane senza dover scendere a nessun compromesso.

Un incontro regolare, ma comunque sporadico e insufficiente, il loro, che i due vivono con trepidante attesa; gli occhi famelici provano allora a rubare, di nascosto, fuggevoli momenti di condivisione – una condivisione sbilenca, probabilmente ingiusta. Così ingiusta che i tentativi di avvicinarla, di attirare la sua attenzione, non mancano, anche se si rivelano sempre fallimentari e devono cedere il passo all’immaginazione, al sogno, che occupa lo spazio lasciato libero dall’assenza. Soltanto l’apparizione della divinità può interrompere questo vagheggiare infinito: «Ai loro occhi, la luce nella sala parve farsi cento volte più splendida, mentre una portiera s’aperse, e apparve la mamma e avanzava verso il mezzo. Ella era più bella della luce».

Nell’algido mondo rappresentato da Bontempelli in questo romanzo non sono ammesse interferenze: «Davanti a quella [la bellezza] bruciò dunque ogni altra cosa, sentimento, inquietudini, piacere di vivere, ambizioni». Nella rappresentazione a tratti scenica cui sottopone la sua persona colpisce soprattutto che la prima fedelissima adepta di Adria sia Adria stessa: abnegazione e perseveranza sono le fidate perpetue di quella magnificenza, astute consigliere, rigide guardiane votate al loro dio profano. Nel giardino incontaminato che è la vita di Adria può capitare che qualcuno attraversi il recinto per avere accesso a una prospettiva più umana: è il caso di Guarnerio, un moderno Icaro che, essendosi avvicinato troppo al sole, deve misurarsi col suo calore e assistere alla propria inesorabile fine, ovvero alla pazzia.

In questo quadro manca, però, una variabile da considerare. Adria non contempla, come Dorian Gray, il ritratto deteriorarsi mentre il proprio aspetto resta fedele alla migliore versione di sé stesso; contempla piuttosto il proprio riflesso al caro, fidato specchio, che custodisce il segreto della sua vita e che pure non è eterno. Il tempo non tiene in particolare conto delle cose materiali ed effimere ed esercita il proprio potere indipendentemente dal fatto che la sua vittima sia una donna di straordinaria bellezza o un essere abietto e brutto.

Nella consapevolezza della caducità del proprio privilegio, resta una sola scelta da fare: oltraggiare il sacrificio di un’esistenza intera o combattere la stessa natura di essere umano destinato a invecchiare e morire . Adria si ritira allora a vita privata, in una Parigi che né lei né i lettori vedranno mai, ma resterà sempre esclusa fuori da quella finestra. In una forma di eccezionale coraggio – o di pazzia fuori controllo – la protagonista lancia la sua personalissima sfida al tempo, prima che Lui possa trovarla, assoggettarla, mostrare a tutti i segni del suo passaggio, sgretolare l’immagine votiva. In questa decisione esemplare si cela lo strenuo ma vano tentativo di ribaltare le leggi universali, di fuggire l’inevitabile e dettare una legge propria, oltre ogni senso di realtà.

«Adria aveva del tutto bandito l’avvenimento e la speranza»: in questa sorta di sospensione fittizia del tempo, autoimposta perché unico strumento di autoconservazione possibile, il romanzo si fa buio, claustrofobico, fermo. Ma la fissità del corpo non è un tutt’uno con quella della mente: e allora in Adria prende forma una coscienza soggetta agli stimoli non più del reale ma del possibile, un esercizio di spirito, unico segno che sia viva e vegeta.

Bontempelli, che non a caso divide in cinque parti – o atti, per proseguire il parallelismo teatrale – il romanzo, indirizza lo sguardo sul dualismo evidente sin dall’inizio ma molto più latente, quello tra madre da una parte e figli dall’altra; l’autore deve dare il sentore che i tempi, invece, corrono, che gli eventi della grande Storia esistono e hanno continue ripercussioni sugli altri.

A poco a poco scompaiono i volti sbiaditi di personaggi insignificanti, che abbiamo intravisto e che non hanno avuto, per Adria, alcuna rilevanza. Restano Tullia e Remo, la più grande testimonianza che non è possibile sottrarsi agli anni, alla guerra, alla morte. Gli avvenimenti che la madre senza sensibilità e affetto aveva bandito irrompono invece senza remore nelle loro esistenze monche, si succedono anzi in un crescendo tragico che è tanto più doloroso quanto più lo è l’intimo desiderio di entrambi di dare significato all’insensatezza in cui loro malgrado sono cresciuti. Al sobrio narratore di queste storie non resta che accompagnare all’epilogo chi ha partecipato alla triste e surreale vicenda, non resta che chiudere il cerchio di Adria.

Fino alla fine questa donna senz’anima sarà fedele a sé stessa, insieme sacerdotessa e dea. E così Adria resterà eternamente bella, eternamente inafferrabile finanche al tempo.