“Un romanzo russo” di Emmanuel Carrère
questione di lingua
Pubblicato in Francia nel 2007 e in Italia due anni dopo da Einaudi nella traduzione di Margherita Botto con il titolo La vita come un romanzo russo, ritradotto poi da Lorenza di Lella e Maria Laura Vanorio per Adelphi (2018), Un romanzo russo è la prima storia scopertamente autofinzionale di Emmanuel Carrère.
Il libro racconta, attraverso un narratore autodiegetico, due anni di vita dell’autore, dal momento in cui decide di accettare la committenza di un documentario francese su un prigioniero di guerra ungherese – ritrovato dopo cinquant’anni in un ospedale psichiatrico di una cittadina russa – a quello in cui taglia definitivamente i ponti con questa realtà.
Sono molteplici le ragioni che spingono Carrère ad assumere l’incarico del reportage: da una parte c’è la volontà di affrancarsi dalle storie di follia e orrore della sua produzione precedente (basti pensare all’opera che viene prima di Un romanzo russo, il romanzo-verità L’avversario, incentrato su Jean-Claude Romand, assassino dei propri genitori, della moglie e dei figli) e di «andare verso gli altri, verso la vita»; dall’altra parte c’è il desiderio inconscio di scavare nei fantasmi delle proprie origini, categoricamente represse per il bene di quelli che lo circondano.
Nonostante nessuno dei suoi familiari più prossimi sia nato in Russia, il russo è la lingua della mamma e del nonno materno, esule georgiano arrivato in Francia negli anni Venti e scomparso nel nulla alla fine della Seconda guerra mondiale. Il velo di mistero sulla vicenda è tenuto ben saldo dalla madre dell’autore, Hélène Carrère d’Encausse, donna di spicco del panorama intellettuale francese, membro dell’Académie, che gli proibisce di scriverne mentre lei è ancora in vita in quanto si vergogna a morte delle accuse di collaborazionismo ricadute sul padre. Naturalmente per Carrère la questione è troppo importante per fingere che non esista; decide, dunque, di gettare luce sull’ombra che tormenta da sempre lui e la sua famiglia, sperando di liberarsene una volta per tutte. Ma, a differenza di quello che ci si aspetterebbe, lo scrittore non fa nulla per arrivare a una verità storica, non studia tracce né documenti, non tenta di ricostruire piste per scoprire che fine ha fatto il nonno. L’unico strumento che utilizza per indagare il passato (e sé stesso) è la lingua del suo avo, il russo.
Carrère lo impara da bambino, per poi dimenticarlo in età adulta, pur conservando un ottimo accento di cui adora vantarsi nel corso del romanzo – il narcisismo è uno dei tratti distintivi del narratore-protagonista-autore, che non prova mai a camuffarlo.
Un giorno capita che in un volume russo lo scrittore riconosca la ninna nanna che qualcuno gli cantava da piccolo; l’impatto emotivo è così forte da spingerlo a studiare e imparare di nuovo la lingua materna. Non appena arriva nella cittadina di Kotel’nič mette in mostra i suoi sforzi con grande soddisfazione:
Dire qualche parola in russo mi ha letteralmente inebriato e, quando la sera ci ritroviamo tutti e quattro nell’unico ristorante aperto della città, voglio continuare ad ogni costo.
Molto più spesso, però, accade che il russo influenzi negativamente l’umore di Carrère, che egli ne sia scontento o infastidito, non perché lo percepisca lontano dalla sua intimità, ma perché sente di rincorrerlo senza mai raggiungerlo, senza padroneggiarlo definitivamente; la stessa distanza che percepisce rispetto alla storia del nonno, poiché ogni volta che ne parla con la madre, ne legge su qualche lettera o ne ricorda dettagli insignificanti si scopre ancora più spaesato di prima. Il fascino che subisce da questa lingua risiede forse nel dualismo che la caratterizza, nell’essere allo stesso tempo la radice dimenticata e la meta agognata, il motivo d’orgoglio e la causa di malcontento, la depositaria di un segreto e la rivelatrice della verità. In alcune occasioni, infatti, la lingua si dimostra un ottimo strumento di manipolazione della verità, sia per il protagonista sia per gli altri personaggi. Quando si reca per un periodo a Mosca, per esempio, lo scrittore tiene una sorta di diario: nel momento in cui deve scrivere di un amplesso con una giornalista del posto lo fa in russo, per “omettere” questa parentesi alla sua fidanzata che probabilmente leggerà il taccuino quando sarà rientrato a Parigi – per di più, la lingua russa esercita nell’episodio una funzione oggettivizzante in senso esotico, oltre che erotico: «È la prima volta che faccio l’amore in russo, che sento una donna godere in russo. I suoni che escono dalla sua bocca mi sconvolgono. Le dico che le sono grato, e a lei fa piacere».
Oppure succede, in una prospettiva opposta, che la traduttrice che lavora con lui debba rinunciare in più di un’occasione al russo in favore del francese per mettere in crisi la versione ufficiale delle istituzioni di Kotel’nič riguardo il prigioniero abbandonato nell’ospedale psichiatrico senza farsi capire dalle autorità locali. E sicuramente il complicato rapporto lingua-verità è una costante ben approfondita durante tutto il romanzo, soprattutto in un’ottica di ricerca identitaria («Grazie al russo mi sembra di scoprire il mio primo volto»). Ma sarebbe un errore credere, come forse Carrère vorrebbe facessimo, che il metodo indagatore di sé stesso e della realtà che lo circonda si esaurisca nella conoscenza o nell’utilizzo dell’idioma russo.
Man mano che si sviluppa il testo capiamo che per lo scrittore la questione fondamentale della sua esistenza non riguarda la lingua materna né quella d’origine. Non si tratta di stabilire l’importanza del russo o del francese nella costruzione del proprio io: ciò che conta davvero per Carrère è la lingua in sé, la parola, la scrittura. Questo emerge dal modo in cui viene trattato l’altro grande nucleo tematico del romanzo, la storia d’amore tra il protagonista e la sua fidanzata Sophie, puntellata di menzogne, reticenze, non detti, ma anche di ammissioni, confessioni e rivelazioni.
Partner cinico, egoista, scostante e narcisista (del resto sono questi i tratti del protagonista che emergono nel testo anche al di fuori dell’ambito amoroso-relazionale), Carrère è capace di dimostrare il suo sentimento a Sophie soltanto scrivendole un racconto, una lettera d’amore pubblicata su «Le Monde», per risanare il periodo di crisi che i due stanno attraversando. Tralasciamo i giudizi personali che il lettore può formulare sul fatto che un uomo, per dichiarare il suo amore, scriva un racconto erotico per la propria fidanzata e lo pubblichi su uno dei quotidiani francesi più letti in assoluto (concedetemi soltanto un «megalomane» sussurrato a mezza bocca), ma soprattutto sulla reazione che l’autore ha nel momento in cui le cose non vanno come le aveva pianificate (vero dramma personale del protagonista, non avere il controllo delle situazioni). Ciò che mi interessa sottolineare è che le parole sembrano essere ciò a cui Carrère si aggrappa quando sente crollare la terra sotto i piedi, la sola speranza in cui crede davvero; sono, cioè, l’unico appiglio a cui si mantiene salda la sua esistenza. E nonostante il mio rapporto da lettrice con il narratore-protagonista-autore di questa storia sia, come penso si intuisca, abbastanza conflittuale, trovo che la fede di Carrère nei confronti della scrittura riveli una straordinaria coerenza personale che ha riscontro in primis nella sua scelta di utilizzare la parola come mezzo di affermazione sociale ed esistenziale. Attraverso la stesura di questo romanzo, infatti, lo scrittore compie un innegabile atto di coraggio offrendo al lettore le sue meschinità, le sue contraddizioni, i suoi traumi alla ricerca di una verità che, pur non essendo assoluta, è intimamente sua.
Se siete in cerca di autenticità e provocazione non fatevi scappare questo libro.
Sono le parole d’amore che ho amato di più in tutta la mia vita.
di Ornella Tomasco