Claudio Musso
pubblicato 1 anno fa in Recensioni

‘’Il sarto volante’’ di Étienne Kern

‘’Il sarto volante’’ di Étienne Kern

In un rinomato atelier parigino a pochi passi dell’Opéra, durante la Belle Époque, gli occhi di un uomo brillano di uno slancio gioioso e di una forza creatrice prometeica. Franz Reichelt sta infatti lavorando alla propria invenzione, al suo nuovo vestito. Gli aeroplani che volano sulla sua testa purtroppo si schiantano, e nuovi martiri del progresso raccolgono il testimone per continuare a sfidare il cielo. Intanto intorno a lui la notte cala inghiottendo gli insuccessi dell’uomo e le stelle brillano un po’ meno del solito, come se partecipassero alle vicende umane, e un giorno inesorabilmente incalza l’altro.

Nonostante questo, però, Reichelt vuole guardare il cielo da pari a pari. Un vento freddo attraversa il suo piccolo locale, lo stesso che si poteva percepire nelle stanze di Heinrich von Kleist quando dava sfogo al proprio demone interiore e creatore. Perché il pensiero della vertigine, ancora prima di provarla, non si sperimenta nella paura ma nel desiderio di osare, di saltare, di fare come Ulisse.

C’è un premio in palio che l’aviazione francese offre a chi sarà in grado di creare un paracadute, uno strumento necessario per salvare molte vite. La febbre per il progresso, infatti, se è vero che rende il possibile reale, sta popolando il camposanto. Gli appunti di Reichelt si fanno dunque sempre più fitti, la ricerca di materiali rari ma necessari sempre più incessante, le prove, spesso deludenti negli esiti, estenuanti. Tuttavia non molla. Non è interessato alla gloria né alla cifra esorbitante per il vincitore del premio, somma che peraltro ha già deciso di destinare agli infelici che vivono accanto a lui, ma vuole essere amato perché ha fatto del bene agli altri, offrendo qualcosa di nuovo e utile a quel mondo che il suo caro amico Antonio, Icaro sconfitto, ha lasciato per sempre. C’è nel progetto della tuta-paracadute un bisogno di risarcimento per chi non c’è più e, al tempo stesso, di rinascita per chi è rimasto.

Facciamo un passo indietro. Reichelt è un sarto per signore dalle mani d’oro, di indole mite e sempre disposto a prendersi cura degli altri. Nato nella lontana Boemia, fa un apprendistato a Vienna presso uno stilista e, uomo che attraversa i confini alla ricerca di un nuovo “io”, approda a Parigi, nella città della moda, dove lavora grazie all’aiuto di Antonio – che poi abbandonerà le creazioni dell’atelier per le fascinazioni dell’hangar – e alla fine si mette in proprio con un buon successo. Perché, nonostante le diffidenze per il suo essere ‘tedesco’ – è ancora viva nei francesi la bruciante sconfitta di Sedan –, la buona società parigina se ne contende le creazioni e gli ordini fioccano.

Per il sarto straniero Parigi è in fondo tutta concentrata nel suo negozio, nella dedizione al lavoro e nella cura dei clienti. Eppure ogni settimana, allo stesso giorno e alla stessa ora, Reichelt si concede una passeggiata nel caldo abbraccio della natura del giardino di Square Louvois. Quella fuga benefica dalla città e dai suoi meccanismi lo ristora, gli dà il tempo di pensare e di ripensarsi. A ben guardare, la fontana ai bordi della quale spesso il sarto si siede nel tentativo di dipanare i fili della propria esistenza, diventa, in un singolare contrasto di immagini, promessa e sfida.

Infatti, sotto le personificazioni dei quattro fiumi francesi in fanciulle amabili e poco vestite, notiamo alcuni tritoni bambini dall’espressione dispettosa che, cavalcando grossi pesci, sembra che tramino qualcosa per le signore di sopra.

Reichelt è come quei tritoni. Portavoce dei tanti misconosciuti che vivono in basso, ha in serbo un gesto perché le quattro inquiline del piano di sopra della fontana, ossia la Francia intera, il mondo intero, si accorgano di lui. E così, in un freddo mattino del 1912, mentre Parigi ancora dorme e una piccola folla di curiosi si riunisce sotto la Torre Eiffel, lui è al primo piano della struttura vestito come un pipistrello. Simile a un artista che calca per l’ultima volta la scena prima che il sipario cali definitivamente, prova sul suo stesso corpo la tuta-paracadute di propria invenzione mentre i cineoperatori lo riprendono e chi gli è accanto si stupisce del fatto che per questo esperimento non usi un manichino.

e ci siamo, sì, che ci siamo, con un piede sul parapetto, dall’alto di quei cinquantasette metri che determinano il divario tra sogno e realtà, senza più poter vedere chi lo circonda, Franz si sporge, ormai proteso verso il vuoto che lo chiama e gli mostra ciò a cui aspira da molto più di due anni, fin da quando era solo un bambino, quando chino sul fiume che attraversa Wegstädtl provava quel desiderio assurdo di tuffarcisi.

È sulla ricostruzione di questa esistenza strappata all’oblio e catalogata su YouTube come un singolare fatto di cronaca che Étienne Kern, dopo anni di critica letteraria, realizza il primo romanzo, Il sarto volante, da poco pubblicato da L’Orma Editore nella traduzione di Anna Scalpelli, limpida e attenta ai chiaroscuri di una prosa dolente e spesso sfuggente.

Il titolo originale dell’opera, Les Envolés (Gallimard 2021), restituisce più compiutamente il senso di questo testo, perché racchiude i tanti voli che hanno attraversato, nella loro tragicità, l’esistenza dell’autore, e che si sono ancorati ai suoi ricordi come un’ossessione. Questo sarto volante, spettacolare e misterioso, diventa così occasione per offrire ai lettori una biografia obliqua di Kern grazie a un coro di echi che pervade le pagine e a una doppia narrazione.

Nel romanzo infatti si alternano due piani: da una parte capitoli in cui Kern, dando del ‘tu’ a Reichelt, oramai diventata una figura familiare, racconta come ha scoperto la sua storia tra foto e video d’epoca e come il suo volo gli abbia permesso non solo di rievocare ma anche di comprendere altri salti nel buio, esorcizzandoli, che persone a lui care hanno compiuto; dall’altra capitoli con una narrazione più classica, di stampo biografico, di un narratore esterno che segue Reichelt dall’odore di luppolo in Boemia a quello di ferro in Francia, un uomo oggi pressoché dimenticato, creatore di bellezza per gli altri, che vive la sottrazione degli affetti più preziosi e l’addizione di nuovi, con un cambio di prospettiva che, esattamente come l’amico Antonio, lo porta dall’ago e filo per clienti pignoli al cielo solcato dalla modernità, altrettanto esigente.

Se con il suo ‘folle volo’ Ulisse si inabissa, nella ricostruzione dantesca, davanti alla montagna del Purgatorio, ossia davanti a quella parte di conoscenza che non gli è dato conoscere, ma resta la memoria di un’impresa mai tentata prima in nome del desiderio di andare oltre, il sarto inventore si lascia alle spalle quella cascata di ferro che è la Torre Eiffel per riscattare tutti gli invisibili del mondo, provando ad addomesticare quel cielo che come un El Dorado è uno spazio ancora vergine, dove la libertà può esprimersi, le parole riscaldarsi e gli spiriti innovarsi.