“Ridondanze” di Paolo Morelli
le extra-vaganze romane di Paolo Morelli
Al principio, al rione, non c’era tutto questo baccano. Anzi, non si sentiva volare una mosca. Siccome non c’erano mosche non esistevano regole né leggi. Anche l’acqua era senza regole, pozze e lagune, si formavano quando ne avevano voglia.
La citazione che impreziosisce la raffinata copertina di Ridondanze (Exòrma), l’ultima extravagante raccolta di racconti di Paolo Morelli, dichiara immediatamente il punto di vista dell’autore, esplicitato nell’Excusatio (sic!) preliminare: «Per coloro che non lo sanno, Testaccio è una località posta al centro di Roma, tra il Tevere e l’Aventino. Qui sarebbe sbarcato Enea se lo vogliamo. Nel linguaggio corrente tale tipo di località romana si nomina rione».
Da questo luogo, dove l’autore vive da quarantacinque anni, scaturiscono tutte le sue storie improbabili e stupefacenti, che hanno, secondo la dichiarazione programmatica dello stesso Morelli, il compito di tramandare l’attività fantastica di questo quartiere, prima che scompaia per sempre dalla faccia della terra. Un esercizio, quello del fantastico, a cui l’autore si è dedicato da tempo attraverso una ricca produzione e che fa sì che la quarta di Ridondanze possa recitare: «Un testo che sarebbe piaciuto a Celati e a Manganelli». Del resto, come ha ben evidenziato Wolfang Iser, fondatore, insieme a Hans Robert Jauss, della Scuola di Costanza, la letteratura, scalzata nel Novecento dal ruolo di intrattenitrice privilegiata dall’avvento dei media visivi, si incardina nelle categorie antropologiche di fittivo e immaginario, che ricoprono un ruolo fondamentale anche nella nostra vita quotidiana.
Tornando a Ridondanze, senza però lasciarci andare a frettolose anticipazioni che potrebbero spuntare gli appetiti del lettore, ci limiteremo a passare in rassegna alcuni personaggi memorabili del rione, protagonisti di storie incredibili, spesso al limite della verosimiglianza – se non del tutto improbabili – ma esorbitanti per fascino e verace vitalità.
Si va dal poeta Pocaluce al pittore imbianchino Michele Battiscopa, personaggi che popolano il primo racconto, Quattro notti mai successe, per arrivare fino a Giulio Guastafoto, celebre in tutto il mondo per la sua improvvida azione di disturbo: ogni mattina passa in bicicletta di fronte a un noto monumento del rione, rovinando (nomen omen) gli scatti della folla di turisti presenti. Questa sua abitudine lo ha reso a tal punto famoso che ci hanno addirittura fatto un film!
Straordinario protagonista di un esilarante racconto sui “topi” e sugli “artisti” che si allargano e si restringono è un performer milanese che realizza, con tanto di titolo, una strampalata azione artistica: parcheggia la sua macchina per quattro giorni in mezzo alla strada. L’esito, forse, è ampiamente prevedibile, ma non per questo meno gustoso per il lettore.
Pagina dopo pagina questi bizzarri racconti, che sfidano l’appiattimento del mainstream audiovisuale e social contemporaneo, trasudano oralità, anche grazie a un registro linguistico gergale, così da conservare e allo stesso tempo ricreare un mondo, quello del rione, dove sopravvivono ancora antichi rituali.
Tra i tanti lacerti del passato, la nottola. Si tratta di un foglio appeso alle vetrate dei bar, su cui erano riportate le trame dei film che davano nei cinema più vicini. E puntualmente alla fine della lettura era già passato l’orario di inizio dello spettacolo…
In tale contesto roman(z)esco non poteva mancare il Grande raccordo anulare, un unico verme di automobili di 69 chilometri che s’è mangiato la coda, dove rimane intrappolato nell’auto Domenico Mogugno.
In questo, come in tutti gli altri racconti, Paolo Morelli si rivela un impareggiabile inventore di nomi parlanti, capace di dar vita a eccentrici e inimitabili personaggi che solcano la pagina con leggerezza inusitata, condita quasi in maniera ossimorica da una corposa consistenza materiale.
Lo stesso accade con i luoghi descritti, come il locale dal nome Alta Tensione, un bar di giovani, un fracasso elettrico da spaccarsi i timpani.
Sempre a proposito di onomastica, l’autore suggerisce che per vivere, identificarsi e riconoscersi ci vorrebbero dei soprannomi,
e allora sarebbe meglio aspettare a nominare certe cose o persone, farle crescere un po’ prima per vedere che non si verifica il caso di un Prospero aggravato, di Fausta menagrama o di Franca ciarlatana, di un Felice sempre triste o un Severo tollerante o di Filippo che abbia le orecchie da bracco! O meditava, per Bacco! Meditava, e perché mai le persone si devono chiamare sempre allo stesso modo, avere un solo nome a vita, e pure gli animali e i vegetali? E se fosse il soprannome il destino dell’uomo, se cioè si aspettasse a vedere come cresce quell’uomo e prima di dargli un soprannome lasciarlo senza niente o dargliene di provvisorio? Tanto poi un bel giorno, non si sa quale, il vero soprannome trionferà.
Sempre al potere delle parole e alla loro forza performativa Morelli dedica un pungente e ironico racconto, Località parzialmente attraenti, in cui viene messa alla berlina la paradossale e incontenibile realtà del turismo di massa. Qualunque luogo, persino un’isola quasi insistente e disabitata, diviene la meta di torme assatanate di turisti, desiderose di foto e nuove esperienze. Qualunque cosa si dica di un luogo – bello, brutto o anche solamente mediocre e dimesso – non c’è modo di fermare la frenesia dei viaggiatori.
Il libro si chiude, e non poteva essere altrimenti, con i detti memorabili di Carmine il barbiere, che nonostante tagli male, se non malissimo, i capelli, pronuncia, svincolati da ogni contesto discorsivo o ambientale, aforismi indimenticabili che ricordano la saggezza di Ennio Flaiano. Uno su tutti per invogliare il lettore: «Di solito quando mi dicono che sono affettato, mi viene fame».