“La città indelebile: Hong Kong tradita e ribelle” di Louisa Lim
Per decenni, Hong Kong era stata un luogo in cui il solo limite era l’immaginazione: una città in perpetuo movimento, la cui terra incessantemente sottratta all’acqua estorceva spazio al mare e le cui torri lanciavano una sfida al cielo. Anche in termini politici Hong Kong era l’esercizio vivente di un esperimento impossibile da pensare, che riuscì a reggersi in piedi solo fin quando non ce la fece più.
Forse per scrivere di una città bisogna esserci nati e cresciuti, per essere almeno in parte imbrigliati da un legame di sangue. O forse bisogna esserci arrivati da adulti, per poterla guardare senza i filtri magici dell’infanzia. E forse per leggere un libro che parla di una città bisogna averla conosciuta, esplorata, assaporata almeno un poco. O forse bisogna che ci sia del tutto estranea, per poterla scoprire attraverso le parole di chi l’ha vissuta a fondo. È con questi pensieri che mi sono approcciata alla lettura di La città invisibile. Hong Kong tradita e ribelle di Louisa Lim, uscito lo scorso febbraio per Add Editore tradotto dall’inglese da Simone Roberto. Poi mi sono resa conto che questi pensieri erano inutili, e che il non essere mai stata a Hong Kong non mi avrebbe impedito di lasciarmi sommergere da questa lettura.
Louisa Lim, di madre inglese e padre cinese, non è nata a Hong Kong, ma vi ha trascorso gran parte dell’infanzia e della giovinezza. Cresciuta nel territorio coloniale, non è mai stata né completamente hongkonghese né straniera. Sospesa, proprio come la sua città, tra tradizioni e internazionalismo, tra Cina e Occidente. La sua identità è avvinghiata a quella di Hong Kong, e fa pensare a quello che il teorico Homi Bhabha chiamerebbe un “terzo spazio”, una dimensione ibrida di libertà e sperimentazione, ma anche di incertezza. Per lungo tempo in bilico tra due mondi, Hong Kong è stata un caso unico nel panorama mondiale: simultaneamente oggetto di mire politiche e commerciali, ma anche mecca cosmopolita, istruita e moderna.
Hong Kong era tradizionalmente un luogo di rifugio e libero pensiero, un santuario per dissidenti e rivoluzionari in cui si poteva discutere di argomenti tabù e acquistare libri proibiti in minuscole botteghe imbucate in cima a strette rampe di scale.
Nel suo libro, Lim racconta la storia di questa megalopoli sui generis e del suo progressivo ritorno alla Cina. Ne traccia i contorni storici e politici, costellandola di aneddoti e storie personali di attivisti, dissidenti, personaggi famosi e comuni cittadini. Delinea le tappe di un percorso doloroso e apparentemente incontrovertibile, quello attraverso cui Hong Kong sta perdendo il suo carattere permeabile, aperto, dinamico. La graduale soppressione delle libertà civili, l’irreggimentazione dello stato, il varo della Legge sulla sicurezza nazionale nel 2019. La resistenza della popolazione, organizzata in momenti e movimenti diversi (tra cui ricordiamo i più celebri: la Rivoluzione degli ombrelli del 2014 e gli scioperi della fame di Joshua Wong, Agnes Chow e gli studenti di Demosistō nel 2019), la repressione da parte della polizia, i tentativi – tuttora in corso, e in larga parte riusciti – di riscrittura storica da parte sia colonialista sia comunista.
Questa esplorazione viene condotta senza risparmiare critiche a nessuna delle parti coinvolte, seppur riconoscendo l’importanza tanto della Cina quanto dell’Europa (in particolare della Gran Bretagna, naturalmente), e assumendo posizioni politicamente schierate. Del resto, dall’autrice di un’inchiesta sui massacri di Piazza Tienanmen, non ci si poteva certo aspettare una neutralità asettica e passiva.
Non lo considererei un libro di altissima caratura letteraria, almeno nella versione italiana, ma suppongo che non sia affatto questo il punto; Louisa Lim non vuole scrivere qualcosa di bello ma qualcosa di vero, che buchi la pagina e costringa chi legge a soffermarsi sulle peculiarità storiche, archeologiche, linguistiche, demografiche e sociali della città.
L’autrice traccia una sorta di guida alla Hong Kong ribelle, non tralasciando né la pericolosità del processo di assimilazione in atto, né la celebrazione della resistenza da parte degli abitanti – che è proprio la voce silenziata durante le trattative politiche, il grande assente mentre qualcun altro decide per le sorti della città. Non a caso, il racconto inizia e finisce con riferimenti al Re di Kowloon, calligrafo di strada che incarna alla perfezione l’audacia della sfida hongkonghese alle due potenze mondiali tra cui è sospesa.
Ne emerge un tributo sincero all’unicità di Hong Kong, alla sua capacità di assimilare e superare gli scontri, connessioni, scambi ed esperienze che l’hanno costituita, un omaggio lucido e critico alla vitalità e all’originalità dei suoi abitanti. L’analisi è equilibrata, settoriale ma non nozionistica, completa ma non prolissa; La città indelebile è infatti un testo adatto sia a chi conosce e “mastica” con agilità le questioni asiatiche, sia a chi si approccia a queste storie per la prima volta, con la consapevolezza che la storia di Hong Kong ha tanto da dire anche a noi.
Alle 23:39 la bandiera britannica fu ammainata per l’ultima volta. I dieci secondi di silenzio che seguirono furono, la gente scherzò in seguito, gli unici istanti in cui Hong Kong fosse realmente esistita. Poi, allo scoccare della mezzanotte, la bandiera rossa con le cinque stelle gialle fu issata sulle note dell’inno nazionale cinese. Accanto una bandiera più piccola, con una versione stilizzata dell’emblema di Hong Kong: un fiore bianco di Bauhinia blakeana su sfondo rosso. Fu un altro momento di involontario simbolismo: la pianta in questione è un ibrido sterile, che non può riprodursi per vie naturali.