Camilla Gazzaniga
pubblicato 2 anni fa in Letteratura

Un’amitié amoureuse da “I beati anni del castigo” di Fleur Jaeggy

«Il suo nome è racconto»

Un’amitié amoureuse da “I beati anni del castigo” di Fleur Jaeggy

I beati anni del castigo: si pronuncia un’antitesi, una dissonanza divarica la frase. Sono beati gli anni trascorsi al Bausler Institut, un collegio femminile svizzero, la facciata di quiete, uno stato di cattività che ristagna al suo interno. Le tende bianche, il mobilio bianco, la biancheria candida, una pace spessa che va sopportata, la vita che scorre al di fuori; l’antitesi del piacere torbido e rassicurante dell’obbedienza che tutte portano dentro al collegio. L’antitesi anche di Frédérique, la nuova arrivata; nessuna prova simpatia per lei, eppure attraente agli occhi di tutte.

La sua figura ha il fascino assoluto ed esasperante di chi non si lascia conquistare e la protagonista – anche lei educanda nel collegio, voce narrante – appena la vede capisce di non poter fare a meno di lei, del suo contrario.

Un’Arcadia della malattia. Là dentro sembra che vi sia pace e idillio di morte, nel nitore. Un tripudio di calce e fiori. Fuori dalle finestre il paesaggio chiama, non è un miraggio, è uno Zwang, si diceva in collegio, un’imposizione.

La protagonista sente di non essere ancora entrata nella vita. Forse, proprio per questo il suo sentimento nei confronti di Frédérique è così fitto; perché lei, Frédérique, della vita sembra sapere già tutto – ed essersene distaccata. Sa portare cucito addosso quel disprezzo nichilista, o forse reale disaffezione, dissimulati nel rispetto e nell’obbedienza alle autorità dell’istituto. Il percorso di avvicinamento tra le due è reso con una semantica militare – «mi presentai, nome e cognome, come una recluta» – e al pari di un combattimento Frédérique deve essere conquistata con metodo, soppesando le parole, le maniere, le pause. Un’allusione di carnalità, tra loro, non c’è mai stata; con la memoria, la protagonista ritrova un istante in cui Frédérique la prende per mano, ma non c’è piacere fisico in quel toccarsi. Nel romanzo, i corpi sono dati nel loro essere impersonale, innocente; non può essere diversamente quando ci si veste e sveste davanti alle compagne, si fa il bagno insieme, in atmosfere profondamente caste, eppure di una promiscuità leggera. Come può esserlo, per paradosso, un’innocenza tanto esibita. Frédérique riesce ad andare anche oltre ai corpi: veste abiti che camuffano le sue forme, anzi la sua unica forma è la magrezza; non si specchia mai, la sua materia è da superare come quella del mondo.

Mi servivo due volte del dessert, il rabarbaro. Là non c’era sangue. La parola più in uso era freilich. Posso fare questo, mi dà il permesso? Ja, freilich. Freilich. («Certamente», voleva dire, ma anche: «liberamente»). 

Con una prosa sobria, curata, inevitabilmente nervosa, Fleur Jaeggy appunta un sentimento mai pronunciato per quello che è stato, la vita nella sua contraddizione. A distanza di tempo, la protagonista si dice incapace di esprimere l’esser stata innamorata di Frédérique, nonostante questa sia, continua la voce narrante, una frase molto facile da scrivere. La loro è stata piuttosto un’amitié amoureuse, forse gli ennesimi termini che apparentemente insieme si negano, oppure non sono proprio, se non nella contraddizione. Anche il contrasto di quel luogo idillico e opprimente viene cercato nelle singole parole, molti sono gli ossimori adoperati lungo tutta la narrazione; solo alcuni: le «caste passioni» covate nel collegio, la pace spessa e l’abbondanza naturale dell’Appenzell che tocca «sopportare», la compagna di stanza della protagonista è «brava e cattiva» così come, in fondo, lo sono tutte. Il profilo rarefatto di Frédérique trova un contrasto concreto nel personaggio di Micheline: fatta la sua entrata nel collegio colpisce le altre, come era stato per Frédérique, ma in maniera antitetica. Micheline per la protagonista è un’amica facile, perché resa dall’esteriorità, con abiti sofisticati, negli abbracci carnali; esibisce la sua avvenenza come chi non si è mai chiesto se possa sottintendere altro. Il legame con Frédérique, al contrario, richiede lo sforzo mentale di chi vede il mondo e si pone al di sopra; e Frédérique ci è arrivata, il suo corpo smunto e gli abiti sobri sono solo la traccia mondana, necessaria per esistere. Il suo essere sembra unito all’assoluto. Sono le passeggiate della protagonista il frangente in cui si sente più prossima a Frédérique, sulle alture montane che circondano il collegio come a fissarne l’arcadica cattività. Sono inizialmente un esercizio di solitudine, poi evocano il bisogno di accostarsi a qualcosa di irrappresentabile, aulico, che nel mondo non può trovare espressione che in certe manifestazioni della Natura. Quelle che si danno nel sensibile, ma sono altro dal sensibile; che dapprima sgomentano, appaiono terribili, ma poi il solo contemplarle testimonia una superiorità d’animo. Proprio come Frédérique, dai modi spaventosi, eppure irresistibili. Si legga la scena in cui la protagonista dichiara il suo amore: «più che a lei, mi rivolgevo al paesaggio». Frédérique, come una forma impetuosa della Natura, come una tempesta o un’altura, si avvicina al sublime.

È così anche anni dopo il collegio, quando le due s’incontreranno a Parigi. Frédérique abita lì e si circonda di nulla. La sua casa vuota, ingiallita, la latrina nel corridoio; tutto sembra stucchevole e misero, invece è solo il prosieguo naturale della figura di Frédérique, sempre più pronunciata verso un “assoluto”, una separazione dal mondo delle cose. In una scena particolarmente densa di significati, il viso di Frédérique è coperto da un cappuccio, davanti a lei una candela smangiata e una sedia, l’unica della casa. Jaeggy descrive il suo volto come avvolto da un velo che ne lascia intatta la bellezza, quasi fosse quello di una madonna, composto e solenne. Gli occhi, che non riflettono più la fiamma, sono ormai rivolti a qualcos’altro. La sua espoliazione non è miserevole, è estatica; quasi fosse un esercizio alla morte.

I nostri antenati non sono forse anche quelle ragazze che troviamo nelle fotografie di persone anonime? Almeno per noi, che abbiamo passato gli anni migliori in un internato. Scorgiamo nei loro volti le nostre sorelle. Una strana familiarità ci lega, è un culto dei morti. Tutte quelle ragazze che abbiamo conosciuto sono entrate nella nostra mente, e diventano così una progenie, tornano in una specie di fioritura postuma.

Sono due gli addii pronunciati da Frédérique; nessuno dei due ha la pretesa di essere definitivo, ma il secondo sancisce la fine di un tempo.

Nel romanzo, a tal proposito, la doppiezza della temporalità è resa finemente: mentre fuori è una linea che corre e non rallenta se non davanti alla rovina, ai tempi del collegio si rigenerava giorno per giorno, scandita da una sorta di automatismo, ripetitivo e rincuorante, circolare ed eterno. È un soffio dettato nella «lingua dei morti», scrive Jaeggy, e la bambola regalata dal collegio prima di uscirne, gettata via e dimenticata dalla protagonista, è l’altra faccia del tempo, quello perpetuato nell’internato, quello che non sarà più. Molti sono i riferimenti a un tempo trascorso che fa il suo continuo ritorno: la figura degli antenati, le iniziali dei defunti scolpite sui sepolcri che ne serbano il ricordo e lo annunciano volta per volta, il sentire della morte. L’idea per cui ciascun volto, di tutte le educande incontrate, si impregna nella memoria e la nutre di sembianze che non si possono cancellare, materializzandosi ogni nuovo anno di collegio, e nell’inchiostro che redige la storia. La trama lascia pensare al vissuto di Fleur Jaeggy, educanda in un collegio svizzero come la sua protagonista, segno autobiografico che tuttavia da solo non può superare la soglia dell’immaginazione narrativa. Nella scena finale, la protagonista ritorna al collegio che non esiste più, al suo posto una clinica per ciechi. L’epilogo dei beati anni del castigo, di quell’amicizia romantica, come fosse una confidenza ripiegata in un diario sbiadito, in cui non si distinguono più gli spazi chiari da quelli scuri. Come chi vuole vedere ma non può.

Il cognome di Frédérique significa «racconto». E, poiché il suo nome è racconto, mi lascio andare a pensare che sia lei a dettarlo, o a scriverlo, con il suo modo di ridere punitivo. Ho anche un inspiegabile presentimento che il racconto sia già stato scritto. Compiuto. Come le nostre vite.