“Guerra” di Céline, il romanzo perduto
Quando Louis-Ferdinand Destouches detto Céline scappò dalla Francia, nel giugno del 1944, abbandonando la sua casa (per non dire “buco”) al 4 di Rue Girardon a Montmartre, probabilmente le sue consuete imprecazioni erano aumentate di frequenza e intensità. E non perché doveva andarsene: ormai quello era pronosticato, tant’è che aveva già pronta la pastiglia di cianuro da portare con sé qualora le cose fossero andate male. No, no. Lo scrittore era disperato perché lasciava nella casa parigina migliaia di fogli manoscritti, alcuni terminati e da sottoporre a una limatio, altri appena incominciati.
Era la fine del mondo, ma non per la guerra, che comunque non migliorava la situazione. Era la fine del suo mondo, perché ora gli toccava rifare tutto da capo. I manoscritti erano andati. Perduti. Morti. Avevano smesso di essere, come direbbero i Monty Python. Ma dal momento che, addirittura per Céline, la speranza è l’ultima a morire, lo scrittore non si diede mai pace e li cercò per sempre, dannandosi per non averli portati con sé, da qualche parte, in qualche valigia, magari abbandonando la moglie piuttosto. Eppure, i nuovi inquilini del sopracitato numero 4, i membri della Resistenza francese, non si lasciarono sfuggire quell’enorme sarcofago d’oro letterario. I manoscritti sparirono, sia chiaro, ma non andarono perduti.
Flashforward al 1980. Il critico teatrale francese Jean-Pierre Thibaudat è seduto alla sua scrivania, probabilmente a studiare qualche pièce, quando riceve una telefonata. «Parla il dottor Thibaudat?», chiedono dall’altra parte dell’apparecchio. «Sì, chi parla?». Al telefono c’è un vecchio membro della Resistenza. Quest’ultimo millanta il possesso di alcuni manoscritti che sembrano appartenere a Céline. Sostiene di averli recuperati a casa sua, a Montmartre. Thibaudat sbalza sulla sedia: sono passati diciannove anni dalla morte di Céline, quarantasei da quando aveva lasciato quell’alloggio. È un ritrovamento sensazionale, ma l’anonimo raffredda subito gli entusiasmi. «Io ve li cedo, ma la notizia deve rimanere tra noi. Non voglio che Lucette goda di alcun diritto d’autore», con l’aggiunta presumibile di qualche epiteto non esattamente galante verso la vedova di Louis-Ferdinand. Thibaudat accetta. E cosa avrebbe potuto fare? Declinare? Eppure Lucette sembra godere di ottima salute, per nulla intenzionata a passare a miglior vita. E gli anni intanto trascorrono anche a casa di Thibaudat, che, per non saper né leggere né scrivere, affida i manoscritti alla casa editrice Gallimard, nel caso dovesse trapassare prima della vedova.
Facciamo un ulteriore salto in avanti, al 2019. La scena ce la immaginiamo così: Thibaudat, non più giovane ma sopravvissuto a Lucette, chiama sede Gallimard e, in una scena che ci piace ipotizzare simile a Tre uomini e una gamba, esclama: «È morta!». Sì. All’età di 107 anni Lucette Destouches ha lasciato questa vita. Gallimard inizia a stampare. Escono Guerre e Londres, il primo pubblicato in Italia da Adelphi nella traduzione di Ottavio Fatica, il secondo lo stiamo ancora aspettando, con fiducia, perché in Francia sta avendo un grande successo.
Guerra non è completo e non è assolutamente come l’avrebbe pubblicato l’autore. Il testo è una brutta copia, però è una gemma. E cos’altro ci si poteva aspettare da un romanzo inedito di Céline? Per tutte le centotrenta pagine, l’autore coniuga perfettamente i freudiani principi di piacere e di dolore, includendo morte e sesso nelle stesse frasi, danzando e flirtando con i due concetti. Fa ridere, Céline. Lo fa con l’assurdo, in un contesto drammatico o, meglio, tragico, come la Prima guerra mondiale. Lo fa parlando del compagno condannato alla fucilazione per diserzione, a cui non risparmia un briciolo di pietà, divertendosi a massacrarlo e umiliarlo. Non solo prima lo oltraggia tramite la moglie, ma poi ne cancella il ricordo approfittando lui stesso dell’ormai vedova. E perché non avrebbe dovuto? «Ma sì, chi se ne frega! All’umanità non dovevo più niente, almeno quella che uno si crede quando ha vent’anni», dice lo stesso Ferdinand, all’interno del romanzo.
A fatica si trova qualcuno di più eretico e dissacrante. Di più bastian contrario e anarchico. In Italia può venire in mente Leo Longanesi, ma comunque parliamo di un editore, non di un romanziere. Il protagonista del romanzo è il solito alter ego dell’autore, Ferdinand, e, come da prassi, Céline parte da un episodio vero della sua vita per creare un’opera verosimile. Esiste veramente questo Bebert? Con questo nome troviamo solo il gatto che Destouches si porta dietro quando fugge dalla Francia, ma dai documenti ufficiali non risulta nessun commilitone. Probabilmente, durante una di quelle notti insonni in cui al posto di dormire scriveva, il felino gli girava tra le gambe facendo le fusa e allora Céline pensò bene di battezzare il personaggio così. E Angèle, la moglie-prostituta di Bebert? Sì, ci sono delle somiglianze con alcuni personaggi che il corazziere Destouches incontra nella sua esperienza, ma nulla di eccessivo come la donna del romanzo.
È tutto così esagerato, come la sua ferita alla testa. Sì, è vero che subì un forte trauma cranico a causa di un’esplosione, ma sicuramente non ebbe mai un proiettile conficcato nell’orecchio, come lamenta il suo alter ego Ferdinand in tutti i romanzi. E allora perché estremizzare? Per giustificare la continua polemica, le reiterate lamentele, per legittimare le sue maledizioni contro il mondo e offendere irreparabilmente tutti: ebrei, comunisti, capitalisti, francesi, tedeschi, e chi più ne ha più ne metta.
Insomma, decontestualizzando Federico Buffa: «Comprereste una macchina usata da quest’uomo?», probabilmente no, non la compreremmo. Ma, così come succede per Leopardi, anche lui condannato all’etichetta di “pessimista”, quando, a leggerlo bene, si capisce che il messaggio finale è pieno di speranza e di umanità, allo stesso modo, Céline diventa così per un motivo: è irrimediabilmente deluso dal genere umano. E non si può essere delusi da qualcuno se prima non si era posta fiducia in quel qualcuno. Céline era un disincantato, certo. Ma era anche, nella parte più profonda del suo essere, una parte foderata da migliaia di strati di odio, una persona buona.
di Alessandro Randi