Culturificio
pubblicato 2 settimane fa in Letteratura

Sylvia Beach e James Joyce

capricci, lotte e pirateria attorno al libro più controverso del ventesimo secolo: “Ulisse”

Sylvia Beach e James Joyce

Sylvia Beach, giovane americana espatriata a Parigi, tenace, determinata, genuina, afferma nelle sue memorie che tre sono stati i suoi più grandi amori: Adrienne Monnier, Shakespeare and Company e James Joyce.

Adrienne, che sarà la sua compagna per tutta la vita, la conosce visitando La Maison des Amis des Livres, la libreria di cui era proprietaria, in rue de l’Odéon. Il secondo amore di Sylvia è la sua libreria: la Shakespeare and Company è pensata come una libreria e biblioteca circolante, ma diventa ben presto il ritrovo di tutti gli americani o inglesi a Parigi, dai più squattrinati ai più rispettabili.

Il terzo grande amore Sylvia lo incontra l’11 luglio del 1920. Adrienne è una degli invitati al party a casa del poeta André Spire e, nonostante qualche protesta, riesce a trascinare con sé anche Sylvia. Il padrone di casa accoglie con fare cordiale l’ospite non invitata e, prendendola in disparte, le confessa: «C’è qui lo scrittore irlandese James Joyce». La venerazione di Sylvia nei confronti di Joyce la fa sentire un po’ in imbarazzo, ma notando che tra gli altri invitati ci sono clienti della Shakespeare and Company, si fa coraggio e si integra nel gruppo.

Dopo cena, lascia le discussioni sulla letteratura francese ai francesi ospiti e si infila in quella che doveva essere la libreria di Spire: una piccola stanzetta tappezzata di libri fino al soffitto. «Là, adagiato in una poltrona fra due scaffali, c’era Joyce. Tremando per l’emozione chiesi: «“Il grande James Joyce?”, “James Joyce” replicò. Ci stringemmo la mano; o, per meglio dire, lui depose la sua, molle e come priva di ossa, sul palmo della mia piccola zampa robusta e perentoria» (Beach, 55). Dopo l’insolita presentazione, Joyce chiede a Sylvia di cosa si occupi: «Gli parlai di Shakespeare and Company: il nome parve divertirlo – e così il mio – e un incantevole sorriso comparve sulle sue labbra. Traendo di tasca un piccolo taccuino e, come osservai con tristezza, portandoselo molto vicino agli occhi, annotò nome e indirizzo e promise di venirmi a fare visita» (Beach, 56), scrive Sylvia.

Dopo la cena a casa Spire, l’immagine che Sylvia ha di Joyce è più o meno riassumibile così: «The great James Joyce was a blushing, trembling man with weak eyes and a fear of dogs. He was adorable» (Birmingham, 152).

Si presenta da Shakespeare and Company il giorno successivo. Sylvia lo vede salire su per rue Dupuytren con un abito in serge blu scuro, un cappello di feltro nero, scarpe bianche non perfettamente pulite, e tra le mani un bastoncino da passeggio in legno di frassino – proprio come Stephen Dedalus, protagonista del suo Ritratto dell’artista da giovane.

Dopo aver studiato gli arredi della libreria, le fotografie appese alle pareti e aver spulciato un po’ tra i libri, Joyce si siede su una poltroncina; la disponibilità e l’interessamento di Sylvia lo mettono così a suo agio che inizia a raccontare della sua vita e dei suoi problemi. Ciò che gli prendeva più tempo e pensieri, in quel momento, era Ulysses, il suo secondo romanzo. Infatti, nonostante Joyce abbia cominciato a dedicarvisi con serietà già dal 1914, la scrittura non ha mai seguito un ritmo regolare almeno fino al 1918, quando la «Little Review» di Margaret Anderson e Jane Heap, con il supporto di Ezra Pound e John Quinn, decide di pubblicare il romanzo a puntate. Da quel momento, Joyce lavora al libro con un buon ritmo per far uscire ogni episodio in tempo. Sylvia seguiva con attenzione le pubblicazioni della rivista americana, che era disponibile per la consultazione anche presso la sua libreria.

Nonostante gli sforzi di Pound e Quinn e delle due editrici, la «Little Review» era caduta vittima del Post Office americano, proprio a causa di Joyce. Durante la sua prima visita in libreria, Joyce racconta a Sylvia che i numeri di gennaio (Lestrigoni) e maggio (Scilla e Cariddi) 1919, e quello di gennaio del 1920 (Ciclopi), sono stati confiscati e bruciati. Mancano ancora quattro delle diciotto sezioni del romanzo e Joyce sembra essere preoccupato per le sorti del libro.

Si arriva infatti a processo e la brillante difesa di John Quinn – che dichiara l’opera di Joyce tranquillamente paragonabile ai grandi classici, con il famoso parallelismo: «Ulysses was ‘cubism in literature’» (Birmingham, 195) – salva le due donne, costrette a pagare una salata multa; la rivista, però, è costretta a chiudere.

«Seppi la notizia da Joyce» scrive Sylvia, «Per lui era un brutto colpo, e mi accorsi che anche il suo orgoglio era ferito. In tono di completo scoraggiamento mi disse: “Ormai il mio libro non uscirà più”. Certo era svanita la speranza di vederlo pubblicato nei Paesi di lingua inglese, almeno per un bel po’; e Joyce, abbandonato su una sedia nel mio negozietto, sospirava più profondamente che mai. Mentre lo guardavo mi venne in mente che si poteva ancora far qualcosa, e domandai: “Non concederebbe a Shakespeare and Company l’onore di pubblicare il suo Ulysses?”. Il suo consenso fu immediato ed entusiasta» (Beach, 67).

Sia lo scrittore che la neo-editrice raccontano dell’episodio nei loro epistolari. Joyce, alterando un po’ la realtà dei fatti, il 10 aprile scrive a Harriet Weaver:

Mi sono accordato per una pubblicazione francese al posto di quella americana, o meglio ho accettato la proposta che mi è stata fatta da Shakespeare and Co. con la mediazione di Mr Larbaud. L’idea è quella di pubblicare in ottobre un’edizione integrale del libro per un totale di 1000 copie più 20 extra per le biblioteche e la stampa. Le invierò un prospetto la prossima settimana. Mi offrono il 66 percento dei guadagni netti. La stampa comincerà quando avremo raccolto abbastanza sottoscrizioni da coprire approssimativamente i costi. (Fitch, 102)

Non è chiaro il perché Joyce tiri in ballo Valery Larbaud, forse per dare all’accordo un tono più professionale, con il benestare di un famoso critico francese; inoltre, il riferimento al 66% sui profitti di cui parla non è mai stati dichiarato, né firmato in alcun contratto.

Dal canto suo, Sylvia scrive alla madre: «Mamma cara [la libreria, n.d.r.] ha sempre più successo ed è probabile che presto sentirai parlare di noi come una regolare casa editrice, e del libro più importante dell’epoca… sst… è un segreto, che ti sarà svelato nella prossima lettera e che ci renderà famose!» (Fitch, 101) alla quale aggiunge un post scriptum: «P.S. È deciso. Pubblicherò l’Ulisse di James Joyce in ottobre!».

Senza lasciarsi spaventare dalla mancanza di capitale, di esperienza e di tutti gli altri requisiti indispensabili a un editore, Sylvia si mette all’opera. La prima cosa da fare è trovare un tipografo ed è Adrienne a darle un suggerimento: Maurice Darantière. Maestro stampatore, come suo padre prima di lui, lavora nella sua tipografia a Digione.

Il secondo passo è trovare i fondi e, a tal fine, iniziare la campagna pubblicitaria. Sylvia stampa dei volantini: la libreria Shakespeare and Company, Parigi, annuncia la pubblicazione dell’Ulysses di James Joyce, in edizione integrale («complete as written»), per l’autunno del 1921. Una fotografia di Joyce formato francobollo fa da corredo all’annuncio, insieme a estratti di articoli che alcuni critici avevano già scritto in seguito alla pubblicazione a puntate presso «The Little Review». Il retro del volantino, invece, è dedicato alla parte compilativa della sottoscrizione: i campi da riempire riguardano il nome e il cognome del sottoscrittore e l’indicazione sul tipo di copia desiderata: infatti la prima edizione, in una tiratura di mille copie, è composta da cento copie su carta olandese, firmate dall’autore, in vendita a 350 franchi; centocinquanta su carta vergé d’Arches, a 250 franchi; le rimanenti settecentocinquanta copie stampate su carta comune a 150 franchi.

Mentre Sylvia raccoglie le sottoscrizioni, Joyce termina le ultime due sezioni del libro: Itaca e Penelope.

Annunciando la pubblicazione per ottobre, Sylvia non prevede i numerosi problemi che si riversano poi a cascata sulla lavorazione del libro.

Il primo ostacolo affrontato riguarda le dattilografe, molte delle quali rifiutano di battere l’episodio di Circe, considerato troppo indecente. Joyce si rivolge a nove dattilografe, le quali abbandonano tutte l’impresa, una minacciando persino di suicidarsi e un’altra fuggendo senza parole dopo aver gettato il manoscritto sul pavimento senza voler prendere compenso per il lavoro già svolto. Disperato, Joyce chiede aiuto a Sylvia. Dopo diversi tentativi, l’editrice trova Mrs. Harrison, moglie di un ambasciatore inglese che, una volta scoperto il contenuto del testo, strappa alcune pagine e ne brucia una parte gettandola nel camino. Mrs. Harrison, costernata, riesce a salvare la maggior parte del lavoro, ma alcune pagine sono perdute. Quando Sylvia informa Joyce, ricordano che John Quinn sta miracolosamente collezionando i manoscritti di Ulysses e una copia dell’episodio di Circe era in viaggio verso gli Stati Uniti.

Quinn rifiuta di rimandarlo indietro e di permettere a qualcuno di copiarlo, ma accetta di far fotografare le pagine richieste. Oltre al tempo impiegato per convincere Quinn, ci vogliono sei settimane per far arrivare le fotografie a Parigi aggiungendo così ritardo su ritardo; lo scaramantico Joyce arriva alla conclusione che tutti i problemi con le dattilografe sono legati alle cifre dell’anno, che sommate davano 13 (1+9+2+1). Ma la battitura del testo ora può procedere.

A giugno Darantière manda all’autore le bozze preliminari. Una volta ricevute, Joyce, vedendo il lavoro così ben sistemato, inizia ad aggiungere e stravolgere. Il processo creativo è ancora in atto: non sta rileggendo e correggendo, sta ancora scrivendo.

Nonostante le proteste di Darantière e l’avvertimento circa l’aumento dei costi, Sylvia lascia che Joyce continui ad aggiungere e modificare il lavoro e, così facendo, quasi un terzo del testo viene scritto proprio sulle bozze. La normale procedura con Darantière prevede dapprima l’utilizzo delle bozze preliminari, su cui si effettuano le prime e più consistenti modifiche; poi inizia il giro di bozze impaginate, dove l’autore corregge piccoli errori o refusi. Con Joyce, invece, si dà il via a un circolo vizioso di revisione di bozze preliminari con quattro o cinque ripetizioni per ogni parte del libro. L’autore complica ancora di più le cose chiedendo a Darantière più copie delle stesse bozze e facendo simultaneamente aggiunte diverse su ognuna di esse. Per stargli dietro – o per precederlo – i compositori modificano il solito layout delle bozze, ampliando l’interlinea e inserendo ampi spazi bianchi tra paragrafi; in questo modo Joyce avrebbe evitato di continuare le sue aggiunte su altri fogli o in pagine di altre bozze. Sylvia tranquillizza Darantière e si raccomanda di dare a Joyce tutte le bozze di cui ha bisogno: Ulysses deve essere come il suo autore lo desidera. Come nota Ellmann, la lettura e la correzione di bozze per Joyce fu un atto creativo. (Fitch, 165).

A rallentare ulteriormente i tempi interviene un nuovo attacco di irite per Joyce, che decide di aspettare che passi e, soltanto a quel punto, di procedere con l’operazione all’occhio, per cui il lavoro sull’Ulysses è in stallo. Sylvia visita spesso «Monsieur Juass», come lo chiama l’infermiera francese: «Portavo a Joyce la posta, che gli leggevo, e anche le bozze di Ulysses: alle lettere potevo rispondere e lo feci per qualche tempo, ma le bozze dovevano aspettare; solo Joyce, che voleva far sempre nuove aggiunte, poteva metterci le mani» (Beach, 95). È solo a ottobre dello stesso anno che Joyce può riprendere a lavorare; in uno slancio ottimista, l’uscita del libro viene annunciata per novembre. In questo mese Joyce lavora diciassette ore al giorno, riesce a rimaneggiare la sezione di Eolo, ad ampliare quella dei mangiatori di loto, a sistemare quella di Itaca e ad aggiungere e aggiungere.

I sottoscrittori iniziano a lamentarsi quando la data fissata arriva e del libro non c’è ancora traccia. A novembre si contano 400 sottoscrittori ma il denaro non è ancora stato raccolto perché il libro non è pronto. Con i fondi ridotti all’osso, Sylvia deve pagare la prima rata del tipografo, in scadenza il primo dicembre, e deve mantenere Joyce e la sua famiglia. Il rischio di bancarotta è dietro la porta.

A complicare la situazione si presenta un altro problema: la copertina. Joyce vuole che sia dello stesso blu del colore della bandiera greca e le lettere del titolo bianche, a simboleggiare le isole greche nel mar Mediterraneo. Ogni giorno Darantière arriva a Parigi con i campioni da paragonare alla bandiera greca svolazzante alla Shakespeare and Company, e ogni giorno è una sconfitta. Sylvia prova a farne fare una riproduzione dal pittore americano Myron Nutting ma neppure così scrittore e editrice sono soddisfatti. Darantière arriva fino in Germania nella sua ricerca del blu giusto, e lo trova. Il problema a quel punto è la carta. Quest’ennesima difficoltà viene risolta litografando il colore su un cartoncino bianco, il che spiega perché l’interno delle copertine della prima edizione sia bianco.

Anche il Natale passa e l’Ulysses sembra arenato. Joyce continua ad aggiungere e sistemare le bozze da sei mesi e continua anche per tutto il mese di gennaio. L’ultima modifica viene inviata a Darantière proprio il 31 gennaio – con circa duecentocinquantamila parole in più rispetto al manoscritto iniziale – e Sylvia prova a chiedergli l’ultimo e più grande favore: riuscire a pubblicare Ulysses il 2 febbraio, il giorno del compleanno di Joyce. Darantière le dice che i tipografi avrebbero fatto del loro meglio ma che sarebbe stato pressoché impossibile.

Il primo febbraio Sylvia riceve un telegramma di Darantière che la avverte di farsi trovare in stazione il mattino seguente alle ore sette, ad aspettare l’espresso da Digione: il capotreno aveva qualcosa da darle.

Il mattino dopo, con il cuore che mi batteva come uno stantuffo, ero sul marciapiede mentre il treno di Digione rallentava e si fermava e il capotreno balzava a terra con un pacco in mano, guardandosi intorno in cerca di qualcuno: di me. Di lì a pochi minuti suonavo il campanello alla porta di casa Joyce e porgevo allo scrittore la copia n. 1 dell’Ulysses. Era il 2 febbraio 1922 (Beach, 110).

Joyce, contento per il suo regalo di compleanno di settecentotrentadue pagine, manda un biglietto di ringraziamento a Sylvia per posta pneumatica: «Non posso lasciar passare questo giorno senza ringraziarLa per tutte le fatiche e le preoccupazioni a cui si è sobbarcata per amore del mio libro durante lo scorso anno» (Beach, 110), accompagnato poi da un sonetto ispirato a Shakespeare:

Who is Sylvia, what is she

That all our scribes commend her?

Yankee, young and brave is she

The west this place did lend her

That all the books might published be.

Is she rich as she is brave

For wealth oft daring misses?

Throngs about her rant and rave

To subscribe for Ulysses

But, having signed, they ponder grave.

Then to Sylvia let us sing

Her daring lies in selling.

She can sell each mortal thing

That’s boring beyond telling

To her let us buyers bring.

            J.J

Da W.S.

Le copie iniziano il loro viaggio verso i sottoscrittori. In ogni libro consegnato, Sylvia inserisce un bigliettino di scuse: «L’editrice si scusa per gli errori eventuali dovuti alle circostanze eccezionali» (Fitch, 22). In effetti, la prima edizione conta un numero di sei errori tipografici per pagina, per una media di 2500 errori. Una delle cause principali di numeri così alti sta nel fatto che i tipografi di Digione non conoscono neppure una parola d’inglese. Inoltre, assemblano ogni parola una lettera alla volta e, abituati alla lingua francese, si trovano spesso in mancanza di lettere poco frequenti nella loro lingua madre, ma ricorrenti nell’inglese, come la w.

In ogni caso, le responsabilità non possono cadere interamente sui tipografi. Infatti, vanno considerati anche altri fattori come la grafia talvolta illeggibile di Joyce, le aggiunte che si incrociavano in ogni spazio bianco come in un puzzle (30 per cento del romanzo), le imprecisioni dello stesso Joyce nel ricopiare, i vari errori causati dal tentativo dei tipografi di seguire le frecce a margine della pagina e le «correzioni» inserite da amici servizievoli e da improvvisati revisori.

La domanda per Ulysses è senza precedenti: il primo luglio 1922 la prima edizione è quasi terminata e presto le ristampe iniziano a susseguirsi: «Ulysses iv, v, vi, vii e così via. Joyce diceva che gli facevano venire in mente i Papi» (Beach, 124). L’Ulysses di Shakespeare and Company arriva alla nona edizione.

Opere citate:

  • BEACH Sylvia, Shakespeare and Company, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2018.
  • BIRMINGHAM Kevin, The most dangerous book: the battle for James Joyce Ulysses, New York, Penguin Random House Company, 2014.
  • FITCH Noel Riley, La libraia di Joyce: Sylvia Beach e la generazione perduta, Milano, il Saggiatore, 2004.
  • JOLAS Maria, The Joyce I Knew and the Women around Him, The Crane Bag, n° 4, 1980.
  • MURAT Laure, Passage de l’Odéon : Sylvia Beach, Adrienne Monnier et la vie littéraire à Paris dans l’entre-deux-guerres, Paris, Fayard, 2003.

di Elisabetta Tommarelli


(fonte della fotografia di Beach e Joyce)