Vite dimenticabilissime, emozioni eterne: “Cinema Love” di Jiaming Tang
Nei suoi occhi la paura ha ceduto il passo alla confusione, e ha aperto la bocca. L’ha chiusa. Riaperta. E sono uscite fuori le parole. E le emozioni – piene di crepe, come pane troppo cotto. Il suo candore mi ha colto di sorpresa, non lo nego. Al cinema erano in pochi a mettersi a nudo in quel modo. Era un posto per fare l’amore, non per l’amore.
Non tollerava, soprattutto, chi considerava il passato qualcosa di sacro e immutabile. Simile a una scultura in un museo o un dipinto di qualche maestosa età monosillabica: Tang, Ming o Qing. Era un’ipocrita, ovviamente, perché si rendeva colpevole dello stesso peccato.
Uomini intenti a scambiarsi effusioni clandestine nella sala buia di un cinema cinese; donne immigrate, lontane da casa e alla disperata ricerca di una stanza dove poter soggiornare; anime lacerate dal lutto, dalla vergogna e dalla gelosia. Vite che non esistono se non per i loro stessi protagonisti, a cui il mondo e la società hanno tentato di raschiare via ogni speranza e dignità. Tutto questo è il cuore pulsante di Cinema Love (E/O, traduzione dall’inglese di Silvia Montis), romanzo d’esordio di Jiaming Tang, scrittore queer immigrato che vanta pubblicazioni su alcune tra le riviste letterarie più importanti negli Stati Uniti.
Nel villaggio di Mawei, uno dei distretti della città cinese di Fuzhou (capitale della provincia del Fujian), c’è un cinema dove gli uomini gay possono vivere i loro incontri amorosi al riparo dagli occhi indiscreti e giudicanti delle altre persone. È qui che incontriamo Secondo e Shun’Er, l’uno devastato dopo essere stato ripudiato dalla famiglia e l’altro frustrato da un matrimonio combinato con l’inquieta Yan Hua. Tra i due sboccia un amore puro e commovente, un po’ impacciato, a volte doloroso.
Nel Cinema dei lavoratori c’è anche Bao Mei, la bigliettaia che fa da guardiana e custode di questo strano luogo, sempre pronta a proteggere i clienti dalle domande insistenti di parenti curiosi o mogli gelose, e convinta che il cinema sia infestato dal fantasma del fratello. La storia di questo luogo fatiscente e un po’ squallido, ma a suo modo magico, viene interrotta dall’incendio e dalla definitiva chiusura del locale, sancita dal piano di riqualificazione urbana di Mawei; storie del genere non sono rare in Cina, dove la chiusura di un esercizio in nome di progresso e modernità non è affatto inconsueta.
Con un salto temporale di una decina d’anni, Tang ci trasporta poi nelle Chinatown americane, tra i lavoratori che lottano quotidianamente per sbarcare il lunario, garantirsi un posto letto in affitto in un appartamento sovraffollato e ammuffito, soddisfare le richieste dei genitori rimasti in patria e placare così il senso di colpa nei loro confronti. È qui che ritroviamo i personaggi già incontrati a Mawei, tutti rimasti vittime e colpevoli a vita del loro passato, tutti affannati ad andare avanti e dimenticare, ma incapaci di voltare pagina.
Il cinema di Mawei continua a infestare le memorie e le identità di questi immigrati, e anche di altri che nel cinema non hanno mai messo piede, come May, donna annientata dalla scoperta dell’omosessualità del marito, così sconvolta da perdere il senno. Il romanzo procede dunque snodandosi attraverso un groviglio di ossessioni e segreti, coprendo un arco temporale piuttosto esteso che arriva fino all’epoca odierna del post-Covid, e raccontale trasformazioni nella vita delle comunità cinesi negli USA. I temi toccati sono molti, dall’omofobia al razzismo, dalla paura alla precarietà, dalla sessualità all’incomunicabilità.
Altro aspetto interessante nel racconto di Tang è la riflessione sulla volubilità e complessità dei rapporti umani, con una descrizione sempre sfaccettata e “fluida” (perdonerete il termine un po’ abusato) dei sentimenti. Non ci sono buoni e cattivi; davanti al tradimento e all’amore non esistono le categorie di giusto e sbagliato, ma solo drammi personali esacerbati dalle convenzioni sociali; come quello di Shun’Er, che vuole un gran bene alla moglie Yan Hua, e pur detestando l’idea di ferirla non può privarsi della possibilità di vivere la relazione appassionata con Secondo nel buio del Cinema dei Lavoratori.
Nel complesso, il nucleo dell’opera sembra essere la complessità del rapporto con la memoria, il senso di straniamento e alienazione che ossessiona l’identità migrante. Questi aspetti si ritrovano in Yan Hua, emblema di una lacerazione che assume toni quasi tragici. Cinema Love è dunque una meditazione sulla marginalità, un racconto della difficoltà e la bellezza delle vite di periferia: quelle degli uomini gay costretti a incontrarsi di nascosto, dei migranti che vivono in brutti appartamenti e trascorrono le giornate a cucire vestiti usa e getta, delle estetiste che spettegolano in cinese davanti a ricche signore bianche sedute a farsi fare la manicure. Inserito in un filone di romanzi che richiamano l’attenzione sulla condizione di autori cinesi immigrati o sinodiscendenti, la pubblicazione di Jiaming Tang è resa particolarmente interessante proprio dalla peculiare intersezione tra immigrazione e queerness.
Chiudiamo sostenendo che si tratta di un testo piuttosto accessibile e scorrevole da un punto di vista stilistico; la prosa è incalzante e la trama ricca di colpi di scena. Pagina dopo pagina, Jiaming Tang trascina i lettori in un susseguirsi di drammi personali e riflessioni sul passato e sul futuro, sul complicato rapporto tra memoria e speranza, costruendo una piccola epopea di vite dimenticabilissime ed emozioni eterne. Si perde forse un po’ di brillantezza nella seconda parte del romanzo, ma l’impressione resta quella di un libro ben congegnato, e di un esordio ben inserito nelle tendenze del mercato letterario anglofono odierno.