Federico Musardo
pubblicato 3 giorni fa in Letteratura

“Infinite jest” – Mario Incandenza

“Infinite jest” – Mario Incandenza

Come se ogni cellula e ogni atomo o neurone o che so io avesse la nausea e volesse vomitare ma non potesse, e ti senti così sempre, e sei sicuro, assolutamente sicuro che quella sensazione non se ne andrà mai e passerai il resto della vita a sentirti così (Davide Foster Wallace, Infinite Jest, trad. di Edoardo Nesi, Einaudi 2016, p. 88).

Scrivere su Infinite jest forse è ridicolo e senz’altro inutile, ma fortunatamente nessun lettore che si rispetti si approccia a un nuovo libro attraverso il criterio di una sua ipotetica o supposta utilità.

Oltre l’ultima pagina rimane un romanzo potenzialmente infinito e rifletterci per iscritto è problematico già su un piano solo teorico: come fare a mettere anche chi non lo conosce nelle condizioni di poter apprezzare un articolo su Infinite jest senza sentirsi disorientato?

Si potrebbe partire da alcune informazioni semplici, essenziali, da una panoramica diffusa sul libro. Si tratta di un testo che molti per mancanza di alternative soddisfacenti incasellano nel genere del romanzo, controverso già da parecchio decenni. Infinite jest sarebbe dunque un romanzo, o più che altro è un mondo a sé. Davide Foster Wallace, l’autore, non è né il primo né l’ultimo a orientare le proprie ricerche letterarie ed esistenziali, nonché banalmente il proprio tempo, verso una narrazione torrenziale, dedalica, lunghissima – quasi milletrecento pagine fitte fitte, con note a corredo di altre note. Si potrebbe sostenere provocatoriamente che Wallace non si sia inventano nulla di unico, se si guarda alla narrativa statunitense del secondo novecento, più o meno postmoderna, eppure alcuni pensano che sia un genio e anche oggi fa scuola, tanto che diversi scrittori o aspiranti tali cercano invano di imitarlo.

È opinabile che Infinite Jest, il suo lascito più corposo, abbia una trama, anche e soprattutto perché è un susseguirsi ininterrotto di storie, digressioni, incubi, fotogrammi in cui, pur dilaniati, come in un automatismo masochistico, si vorrebbe rimanere per sempre. E comunque, anche se di questo romanzo si potesse presentare una trama più tradizionale, non avrebbe nessuna importanza.

Siamo in un futuro distopico. Gli Stati Uniti hanno perso i loro confini e insieme a Canada e Messico sono diventati parte dell’Onan (Organization of North American Nations). La trama ruota attorno a tre nuclei principali: la vita all’interno dell’Enfield Tennis Academy, una scuola di tennis per giovani promettenti, quella in un centro di recupero per tossicodipendenti, l’Ennet House, e la ricerca capillare e militante di una pericolosa videocassetta.

Una trama al netto di tutto che sembra abbastanza convenzionale. E infatti non ha nessuna importanza, o quasi. Come per altri grandi classici, ciò che ha segnato una generazione di lettori e che continua a sopravvivere al tempo prescinde dalla trama, dagli eventi narrati, dai personaggi, dalla fabula e dall’intreccio, forse anche dalla lingua. Aprendo Infinite jest si varca la soglia di un mondo al cui interno vivono più umanità, naturalmente tutte di carta. Dall’inizio alla fine del romanzo non c’è soltanto un protagonista, e se proprio si dovesse menzionare un personaggio di spicco è probabile che molti sceglierebbero Hal Incandenza, precoce stella del tennis, un ragazzo che sta emotivamente altrove e che, dietro l’apparenza di una certa genialità, convive con un’assuefazione che lo scinde, e vive scisso allo stesso modo degli altri personaggi, ciascuno a modo suo. Il padre si chiama James O. Incandenza ed è un co-protagonista in absentia, dal momento che dopo anni di pellicole sperimentali si suicida infilando la testa in un forno. Hal ha due fratelli: Orin, il maggiore, e Mario.

Sulle orme del padre, Mario Incandenza è un giovane sul cui capo pende la scure dello stigma sociale, un cineasta bonariamente assecondato un po’ da chiunque, reso docile e al contempo più saldo da una forma d’arte che gli consente di esprimersi e di rappresentare la propria visione della realtà. Il suo cinema però non è imperniato sul tema della morte, non è sperimentale ed eclettico come quello del padre, a tratti ha addirittura un piglio documentaristico, sembra voler rappresentare la realtà, costruirla attraverso il suo punto di vista sul tutto, anziché distruggerla. E questa distanza tra padre e figlio in un certo senso si riflette su concezioni del mondo diverse, incomplete e compromesse da qualcosa, che si disallineano non appena si ha l’illusione di avvicinarsi a una o all’altra e poi di comprenderla. I film del figlio, così, potrebbero dare vita a una speciale cosmogonia attraverso cui il personaggio esiste insieme e al di fuori degli altri.

Forse Mario è uno dei personaggi più vitali del romanzo, meno deformati dal contesto, e potrebbe incarnare lo stereotipo dell’individuo puro, incontaminato, di chi rimane integro nonostante le pressioni degli altri, oppure della persona neurodivergente che, solo apparentemente ingenuo, scopre segreti e verità insondabili. Così diventerebbe una specie di Cristo all’americana, un idiota dostoevskijano incompreso e circonfuso di sapienza, verrebbe insomma fagocitato dalla convenzionalità e incasellato in una determinata tradizione. Anche per questo bisognerebbe resistere alla tentazione di ridurlo a un’idea, a un tipo, illuminandone i chiaroscuri. Mario dunque rifugge da ogni definizione.

Di episodio in episodio, questo personaggio sosta alla periferia del romanzo, sulla soglia delle trame principali, spesso accanto al fratello e filtrato dalla sua personalità o più di rado autonomo. Potrebbe bastare un esempio su tutti per introdurlo, la sua ultima comparsa prima della fine – salvo che per le note.

Si tratta di una scommessa sulla bontà delle persone tra Barry Loach, futuro capo degli allenatori dell’Eta, e suo fratello. Quest’ultimo è un bambino «traboccante d’amore astratto e di fede innata nella bontà insita nell’anima di tutti gli uomini» (p. 1162) e infatti, maturando, decide di coltivare la propria vocazione religiosa in un seminario gesuita, finché non vive una crisi mistica, un «declino spirituale». Ma Barry, il piccolo della famiglia, ha bisogno di rassicurazioni, di sapere che quel fratello «spiritualmente necrotico» può rinsavire e tornare a credere, anche soltanto per seguire i suoi desideri sportivi senza sensi di colpa. Eppure il ripensamento sembra incontrovertibile e tale sfiducia si estremizza, soprattutto dopo che ha conosciuto il disagio profondo dei bassifondi di Boston e «la totale mancanza di pietà e di aiuto da parte della cittadinanza».

I due sono a una distanza radicale, in una condizione di inconciliabilità, quando si arriva a una «sfida sperimentale». Il fratello invita Barry a non lavarsi né cambiarsi, ad «assumere l’aspetto di un sinistro barbone pidocchioso e chiaramente bisognoso di carità umana» e a stazionare di fronte all’uscita della metropolitana per «chiedere semplicemente ai passanti di toccarlo. Solo di toccarlo. Cioè mostrare un minimo di calore umano e contatto».

Tra un’elemosina e l’altra, per settimane, non lo tocca nessuno.

Solo il gesto di un personaggio lo salva, dopo nove mesi di rassegnazione sempre più nera. Sarà Mario Incandenza, appena quattordicenne, l’unico a stringergli la mano e a «rianimare la fede di un uomo sul punto di perderla» (p. 1167).