“Casanova” di Stefan Zweig
smontare la leggenda e riscoprire l’uomo in una narrazione che dura da trecento anni
L’immagine forse più sedimentata di Casanova è quella del libertino instancabile e della maschera logora di un Settecento frivolo e galante. Eppure, entrando nelle pagine della biografia che Stefan Zweig gli dedica nel 1928, questo profilo si dissolve per lasciare spazio a un personaggio diverso: più complesso, sfaccettato, meno prevedibile della caricatura che la tradizione ci ha consegnato. Con il suo sguardo lucido ma partecipe, Zweig mostra come Casanova non sia soltanto un seduttore ma un figlio naturale del proprio secolo, un frammento vivo di un mondo sospeso tra la stanchezza delle corti e la vitalità dell’imprevisto. Un uomo che ha fatto della vita un’arte irregolare e scintillante.
Proprio per questo Zweig invita il lettore a osservare più da vicino il teatro in cui Casanova si muove. Il secolo dei Lumi, ben lontano dall’essere un’epoca ordinata e luminosa, è un palcoscenico irrequieto, popolato da astrologhi e alchimisti, giocatori e illusionisti, avventurieri eleganti che inseguono ciò che la realtà non offre più: stupore, rischio, novità. In questa costellazione di uomini senza radici, Casanova non è un’anomalia ma l’incarnazione più brillante di un’intera confraternita di spiriti mobili. Non nasce nella miseria né nell’inganno; è colto, versatile, curioso, capace di parlare lingue anche quando non le comprende del tutto, di muoversi tra arti e teatri come un attore consapevole della messa in scena di sé stesso. Il suo talento non è frutto del bisogno ma di un’indole irrequieta.
È in questo contesto che emerge, spesso ignorata, la sua vera forza: non l’astuzia né la malizia, ma il coraggio. Casanova è l’uomo che si getta nel rischio con naturalezza quasi infantile, come se la fortuna fosse una compagna capricciosa con cui giocare. La sua vita è un alternarsi di vertiginose salite e brusche cadute: non perché perseguitato dal destino, ma perché lui stesso rifiuta la sicurezza e preferisce l’ebbrezza dell’instabile. A differenza del calcolatore vive per l’intensità, per l’esperienza più che per il risultato. E mentre noi, ieri come oggi, ci muoviamo caricando sulle spalle catene di giudizi e pregiudizi, Casanova procede leggero: abbraccia le donne, attraversa i paesi, si affida alla ruota del caso come un maestro dell’arte di vivere. Il suo libertinismo non è pratica epidermica ma un’estetica della libertà. Per questo il suo vagabondare è metodo, non fuga: vivere come opera in divenire. E Zweig, figlio del crepuscolo imperiale asburgico, vi riconosce una segreta affinità: entrambi sono testimoni di un mondo che si dissolve e sono affascinati dalla molteplicità e dalla minaccia della noia. Per l’autore viennese come per il suo protagonista veneziano la vita è questione di vitalità più che di moralità.
Allo stesso modo anche il suo erotismo, spesso deformato dalla vulgata, assume attraverso pennellate narrative di Zweig un significato inatteso. Casanova non è preda di pulsioni oscure, né predatore, né amante raffinato nel senso mondano del termine. Possiede un impulso erotico che è energia vitale, un movimento gravido verso la vita delle donne, qualunque sia il loro ceto, non per dominarle ma per entrare in contatto con la loro forza. Ama la vitalità che emanano, non il potere che potrebbe esercitare su di loro. Qui la distanza da Don Giovanni si fa abissale: il seduttore mozartiano è divoratore tragico, nemico del femminile, e la sua conquista è sempre privazione e, al contempo, violazione di ciò che hanno più caro, ovvero l’onore. Casanova invece illumina, non divora, accompagna, non distrugge. Le sue compagne non sono vittime ma complici soddisfatte, i suoi incontri fugaci non producono rovine ma ricordi. E la sua leggerezza è libertà più che superficialità: ama come vive, in movimento, senza ferire. Ed è soprattutto questo tratto che si perde quando lo si vuole ridurre a libertino impenitente.
Ma la leggerezza che gli permette di attraversare il mondo lo rende incapace di mettervi radici. Zweig, con un affondo psicologico di rara finezza, mostra come l’uomo che vive solo la contingenza fatichi a sostenere il peso del tempo. Quando l’età avanza e le corti si allontanano, Casanova non trova più il proprio posto: la vita che prima gli sorrideva ora gli sfugge perché la sua arte della gioia ha sottovalutato un fatto essenziale: invecchiare.
«Il carnevale di Casanova, tra tutti quelli di Venezia il più variopinto, finisce precocemente in un melanconico mercoledì delle ceneri» scrive Zweig. Eppure proprio in questa caduta arriva il miracolo: l’avventuriero, costretto a fermarsi, diventa narratore e conquista il suo biografo d’eccellenza. Infatti nel castello di Dux, isolato e malinconico, Casanova scrive la sua autobiografia, un’opera non destinata alla pubblicazione, ricca di pagine che graffiano la verità e trasformano un’esistenza dispersa in un racconto compiuto, capace di dare forma al proprio caos, di giudicare la vita non per ciò che è stata, ma per ciò che ha fatto accadere.
In queste pagine si profila un Casanova che diventa grande non tanto per le sue imprese, quanto per il modo in cui le ricorda. Non è esempio morale né modello di condotta, è un uomo pieno di vita che ha saputo fare della propria irregolarità una testimonianza. E oggi, nell’epoca liquida e ossimorica in cui viviamo, la sua figura risuona con sorprendente modernità: un “libertino” nel senso più alto, colui che attraverso il piacere conosce il mondo, che nella sensualità trova curiosità, nella curiosità conoscenza.
A trecento anni dalla sua nascita il ritratto che ne fa Zweig, nell’edizione Castelvecchi, tradotta con finezza da Enrico Bocca, resta tra i più preziosi. Restituisce al mito la sua complessità, all’avventuriero la sua umanità e a noi una domanda luminosa: quanto della nostra vita è davvero vissuto e quanto è solo attesa delle aspettative altrui? Casanova, con la sua corsa instancabile verso l’intensità, ci ricorda che a volte è l’esistenza stessa a chiederci più coraggio. E che solo chi osa bruciare davvero riesce, alla fine, a lasciare un po’ di luce.