Georges Perec: la vita, istruzioni per l’uso
Georges Perec (Parigi, 7 marzo 1936 – Ivry-sur-Seine, 3 marzo 1982) faceva parte di quel gruppo di scrittori e studiosi francesi che nei primi anni ’60, su iniziativa di Raymond Queneau e François Le Lionnais, diede vita all’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero “Officina di Letteratura Potenziale), un progetto che ritenendo esaurite le direttrici tradizionali della letteratura si poneva l’obiettivo di trovare nuovi modi e nuove vie per rinnovarla e darle dinamismo. Membro dell’OuLiPo fu, tra gli altri, anche Italo Calvino. Uno dei metodi principali del gruppo consisteva nel porsi dei vincoli prima di produrre una storia: formule e strutture matematiche tra le più varie, o ancora permutazioni (ad esempio, usare la lettera F al posto della S) e palindromi. In generale, l’idea era di partire da una regola di base, che poteva essere più o meno complessa, e poi far sì che la storia raccontata prendesse forma o, meglio, scaturisse da essa in maniera regolare o irregolare, diretta o indiretta, ma sempre secondo tale schema di partenza, a volte volutamente taciuto. Si pensi ad Esercizi di Stile (1947) di Queneau, dove l’autore descrive sempre la stessa scena – un uomo che si lamenta su un autobus affollato – 99 volte, variando la narrazione capitolo per capitolo, secondo criteri stilistici, enigmistici e retorici sempre differenti; o a La Scomparsa (1969), dello stesso Perec: un romanzo che è anche un lipogramma, ossia un testo in cui non compare mai una lettera, in questo caso la lettera «e».
Culmine dell’attività di Georges Perec è La vie, mode d’emploi (in italiano “La vita, istruzioni per l’uso”), un libro che egli meditò e progettò per ben nove anni, e che finalmente fu pubblicato nel 1978.
Perec immagina uno stabile parigino, un grande e vecchio palazzo situato al numero 11 di rue Simon-Crubellier, nel XVII arrondissement (la via è chiaramente inventata), e strutturato così: 8 piani, più il piano terra e le cantine, con molti appartamenti, di varia dimensione e con un numero variabile di stanze: una figura rettangolare, un quadrato allungato di 10 caselle per lato, per un totale di 100 caselle, come su di una scacchiera. La narrazione di Perec procede infatti secondo i movimenti che potrebbe fare la pedina del cavallo su una scacchiera, muovendosi così di stanza in stanza – ogni stanza è appunto una casella – senza tornare mai nella stessa camera. Si può quindi ritornare nel medesimo appartamento, ma solo se questo ha più stanze. Ciascuna camera-casella rappresenta un capitolo ma attenzione, i capitoli finali saranno 99 (più un preambolo e un epilogo che sono però fuori da tale struttura), e non 100 come si potrebbe pensare: perché? Lo scopriremo solo alla fine. Ma non finisce qui, perché se il palazzo di Perec è una scacchiera, va anche immaginato come un puzzle. Il libro è difatti composto di numerosissimi frammenti, di tanti capitoli che assumono senso solo se combinati tra loro, proprio come una singola persona acquista coscienza di sé interagendo con gli altri e in generale col mondo: un pezzo di puzzle, se preso da solo, – ci dice Perec – non può restituire un’idea dell’insieme che andrà a costituire, ma potrà invece essere fuorviante, generando un’impressione sbagliata e confusa in chi lo maneggia e ne valuta la composizione. Come afferma lo stesso autore: «l’elemento non preesiste all’insieme, non è più immediato né più antico, non sono gli elementi a determinare l’insieme, ma l’insieme a determinare gli elementi: la conoscenza del tutto e delle sue leggi, dell’insieme e della sua struttura, non è deducibile dalla conoscenza delle singole parti che lo compongono».
Vedremo che il tema del puzzle sarà dominante nella trama del romanzo. Ma è curioso notare, tra le altre cose, come il termine francese per designare il singolo pezzo di un puzzle, «pièce», sia il medesimo usato per indicare la stanza di un appartamento.
In aggiunta a questa struttura di partenza, si pensi che Perec aveva persino stilato una lista di 42 categorie tematiche assai diverse tra loro: citazioni letterarie, oggetti, date, località, colori, etc., da combinare secondo alcune oscure regole matematiche, di modo che la narrazione proseguisse sempre attorno alle stesse variabili, declinate ogni volta in modo originale.
Contenitore e contenuto sono strettamente collegati: secondo la teoria del puzzle e della scacchiera sopra accennate, l’autore comincia dalle scale (il luogo d’incontro per eccellenza, non trovate?) e procede poi di capitolo in capitolo, soffermandosi sugli ambienti di ogni stanza e di ogni appartamento, sui singoli oggetti che li compongono e adornano, ma soprattutto sulle persone che in tali camere vivono o hanno vissuto. Ogni angolo del n.11 di rue Simon-Crubellier ha una sua storia, un suo insieme d’informazioni più o meno evidenti che vanno raccontate e soppesate, e che si definiscono proprio attraverso una serie di collegamenti reciproci e non, nel tempo e nello spazio –ovviamente, la cosa vale in misura ancora maggiore per gli inquilini del palazzo. Ciascun elemento, qualsiasi oggetto scaturito dalla penna dell’autore conserva dunque in sé un’infinità di potenziali storie: Perec sfrutta al massimo questa possibilità. Farò qualche esempio.
Capitolo IV: siamo nel salotto dell’appartamento al quarto piano a destra, occupato dai coniugi Marquiseaux, Caroline e Philippe. Arrivato a descrivere i quattro quadri appesi alle pareti della stanza, Perec si sofferma in particolare su di uno: la riproduzione in bianco e nero di un quadro dell’irlandese Stanhope Forbes, Il topo dietro la tenda. Ecco, dopo aver detto che il dipinto trae spunto da una storia realmente accaduta, l’autore passa a raccontarla: è la storia di come Lady Forthright, una vecchia signora di Newcastle ossessionata dai suoi preziosi orologi, licenziò il suo servizievole cocchiere, che aveva scambiato un orologio per un topo, distruggendolo. Ma si noti che l’appartamento dei Marquiseaux dà pure lo spunto per raccontare degli Echard, famiglia di origine di Caroline Marquiseaux, che prima abitavano lì. Lo stesso accade per i Rorschash, che possiedono un’abitazione su due piani (il quarto e il quinto): descrivendo la loro casa e la loro vita, si dovrà anche raccontare dei precedenti proprietari della casa: i Gratiolet che hanno costruito l’intero palazzo, e i Grifalconi, originari di Verona. E poi ci sono il Dottor Dinteville al sesto piano, i Marcia del piano terra con il loro negozio di antichità, e al secondo piano la vedova De Beaumont, il cui defunto marito, un archeologo, tentò di rintracciare la capitale del califfato arabo in Spagna…
Si procede dunque secondo tale schema, sempre variato: una continua proliferazione di racconti, un sistema di scatole cinesi, dove una storia ne racchiude un’altra e questa può a sua volta contenerne un’altra o altre due o altre tre. Sembra quasi che ci sia una Shéhérazade invisibile, sempre pronta a raccontare storie, che qui non sono mille ma poco ci manca: settecento. Tante, tantissime storie: quella dell’uomo che tentò di recuperare il Santo Gral e finì gabbato, o quella dello scienziato che pensò di scoprire la sintesi chimica del diamante, o ancora la singolare avventura della donna che s’inventò una serie di nipoti mai nate.
L’aspetto più stupefacente della tecnica di Perec è che niente è mai definito in partenza, una caratteristica che rende la lettura sempre avvolgente, mai noiosa. La narrazione avviene su più livelli, dilatando il racconto, traendo origine da elementi di volta in volta differenti: un mobile, un quadro, una statua, una persona, etc. Abbiamo detto prima che una delle categorie tematiche che Perec si era imposto di rispettare era quella delle citazioni letterarie. La storia di un avventuriero europeo che finisce prigioniero di alcuni signori arabi del Nord Africa, ad esempio, offre l’occasione per inserire una di queste citazioni: una notte, davanti al fuoco, l’europeo racconta di certe meravigliose città, alcune delle quali sono addirittura sospese sul vuoto o possono vivere dentro i sogni: sono nientemeno che le Città Invisibili di Italo Calvino.
Si capirà quindi perché l’edizione francese riportasse la dicitura, voluta dallo stesso autore, di «romans», al plurale: la Vie, mode d’emploi è più romanzi uniti assieme, non uno solo: è un libro potenzialmente infinito – un genere letterario per cui lo stesso Calvino coniò la definizione di «iper-romanzo». Del romanzo Perec recupera soprattutto la molteplicità: vuole creare un libro che sia anche un grande dizionario, un’opera enciclopedica che contenga tanti eventi, tanti personaggi, tanti luoghi, tanti ricordi, un mondo letterario in cui possa rispecchiarsi il mondo reale. Per questo motivo il libro abbonda di acute e minuziose descrizioni, degne di un Flaubert, di un Balzac o di uno Sterne. Perec vuole fermare il tempo, anche solo per un istante, e raccogliere le tracce di una realtà in continuo mutamento, descrivendo la vita in tutte le sue sfumature e occupandosi delle cose – di tutte le cose –, elencandole e studiandole nei loro dettagli più infinitesimali.
Risulterà quindi ancora più disarmante sapere che questo libro – escludendo le varie e numerosissime digressioni temporali – copre solo lo spazio di una giornata: il palazzo è rappresentato nella giornata del 23 Giugno 1975, poco prima delle otto di sera, e tutte le azioni narrate al presente si svolgono entro questo solo giorno.
A questo punto, però, ci si potrebbe anche chiedere: davvero non c’è un filo conduttore? E poi all’inizio avevo detto che quella del puzzle non era soltanto una metafora della vita o una struttura immaginativa per il palazzo, ma proprio un tema fondante nella narrazione di Perec. Come abbiamo visto, questo libro ha tantissime storie e dunque tanti personaggi e numerosi protagonisti: un posto d’onore è però occupato da Gaspard Winckler, un vecchio artigiano che abita al sesto piano, e da Bartlebooth, un enigmatico miliardario inglese alloggiato al terzo. Poco a poco la loro storia intrecciata si dispiegherà dinanzi agli occhi del lettore, ritornando più e più volte nel corso del libro, e dandogli infine un senso finale e, se vogliamo, una certa compiutezza.
Bartlebooth – il cui nome sintetizza insieme quelli di Barnebooth, un altro miliardario inventato da Valery Larbaud, e di Bartleby, lo strambo scrivano di Herman Melville –, poco dopo il suo arrivo in rue Simon-Crubellier (a vent’anni), decide di organizzare tutta la sua vita intorno a un solo monumentale progetto, che studia nei minimi particolari. Per dieci anni, dal 1925 al 1935, prende lezioni di acquarello dal pittore Serge Valène, del settimo piano. Per vent’anni, dal 1935 al 1955, viaggia per tutto il mondo, accompagnato dal suo fedele domestico, Smautf: ogni quindici giorni dipinge una marina, cioè un acquarello raffigurante un porto di mare, e poi subito la invia al signor Winckler, perché questi, grazie all’aiuto di un chimico dell’ottavo piano, possa attaccarla a un pezzo di legno, tagliarla e trasformarla in un puzzle artigianale. Per figurarsi le dimensioni dell’intero progetto, si pensi che gli acquarelli alla fine saranno 750. Ciascun quadro-puzzle dovrà poi essere conservato in una scatola che riporti luogo e data di realizzazione del quadro, di modo che Bartlebooth per altri vent’anni, dal 1955 al 1975, possa prendere una nuova scatola ogni quindici giorni, risolvere il puzzle ivi contenuto, ricomporre l’acquarello e infine inviarlo nuovamente nel luogo in cui è stato realizzato, perché venga infine distrutto.
Dare senso a un’intera vita con un progetto chiaramente insensato, di cui non resterà alcuna traccia: qui Perec si è davvero superato.
Ma ci riserva ancora un’altra sorpresa. Nel suo piccolo appartamento al settimo piano, che funge anche da studio pittorico, Serge Valène sta dipingendo un quadro: un’enorme tela che altro non raffigura se non il palazzo in cui egli stesso vive, con le persone che vi abitano, i suoi appartamenti e le sue camere. L’intero stabile è visto come una casa delle bambole, senza facciata, con le sue varie sezioni, con tante piccole parti in cui la vita si svolge simultaneamente. Perec cita se stesso: il quadro di Valène è la storia che egli sta raccontando fin dalla prima pagina.
Bisognerà dunque domandarsi: riuscirà Bartlebooth a terminare la sua folle e titanica impresa? E quel dipinto, Valène lo completerà? Lo si saprà solo alla fine.
La Vita, istruzioni per l’uso è un libro che non esito a definire un capolavoro assoluto. Si tratta di un’opera unica e geniale, di un universo letterario incomparabilmente ricco, completo e affascinante, che meriterebbe di essere indagato e scandagliato da chiunque, e che chiaramente non trova giustizia nella descrizione sommaria e generale che ho abbozzato finora. Questo libro di Georges Perec è una gemma rara, e il suo titolo, a prima vista forse pretenzioso e totalizzante, ne restituisce appieno lo spirito e il senso. La vita è davvero un puzzle? Fatichiamo a trovare un nostro spazio, crediamo di aver raggiunto un equilibrio e invece alla fine scopriamo di esserci ingannati, e ci domandiamo se forse non sarebbe stato meglio agire in un altro modo. E ancora, siamo consapevoli che, come diceva John Donne, «nessun uomo è un’isola», e che noi siamo perché altri sono, che la nostra esistenza può acquisire un senso solo se è valsa a qualcosa, se ha contribuito a rendere migliore il mondo o felici gli altri. O la vita è forse una scacchiera, un insieme di spazi e momenti che possiamo toccare una sola volta, e persino di sfuggita? Il tempo corre via, ne siamo ben consci: quest’attimo già si è perso, in una fila d’istanti sfioriti e irrimediabilmente svaniti. Ma soprattutto non si può ripetere il passato, tornare nello stesso posto, rivivere le stesse emozioni: il risultato sarebbe ogni volta differente, sicuramente nuovo e magari anche deludente.
Come vedete, nessuna risposta può essere davvero esauriente, e neanche questo libro lo è: resta però un meraviglioso monumento alla vita, alla confusione che può generare e alla bellezza che può partorire: un libro in cui forse potreste persino trovare, di fronte a tanti noiosi problemi, delle fantastiche istruzioni per l’uso.