C’è originalità e originalità: Chaucer e Boccaccio
viaggio nella storia dell’invenzione letteraria
Il concetto di originalità per come lo intendiamo noi al giorno d’oggi è un’invenzione – o una scoperta – piuttosto recente e legata alla modernità, della quale non è semplice tracciare i confini storici, che variano notevolmente nello spazio e nel tempo e soprattutto a seconda delle culture che li incontrano, ma che anche all’interno delle stesse culture hanno sicuramente preso forme diverse a seconda di chi, con quale spirito, e con quali idee si è trovato su questi confini e ha deciso di danzare sulla loro linea, di restare nel proprio recinto, oppure di gettarsi dall’altra parte, nel “lato oscuro”.
Non è dato sapere – e non sapremo mai perché certamente non fu opera di una singola persona – chi ha introdotto l’originalità moderna, ossia quel gusto che ripone valore ad un’opera soltanto se essa è scrittura assolutamente inedita e mai vista prima nello scenario artistico; sappiamo che esisteva un concetto di originalità passata, che ha guidato gran parte dell’opera medievale ricalcandola più o meno fortemente sull’interminabile bibliografia ereditata dal mondo latino e in parte greco, e che era diametralmente opposta alla nostra; ma basta poco a far convergere non tanto le due idee di originalità tra di loro, quanto l’idea di un’originalità come quella passata che vive all’interno della modernità, la quale è evidentemente legata all’idea di invenzione dal nulla.
Non a caso, la nozione di originalità conferisce al termine un significato bivalente: originale come una novità, come un’unicità; ed anche originale come una bizzarria, una stravaganza.
La prima sfumatura semantica esclude l’oggetto caratterizzato dall’originalità da un’appartenenza ad una categoria, ad un insieme più grande a cui possa fare riferimento. Unico e nuovo sono caratteristiche che se esistono, esistono come indipendenti, e creano tutt’al più una categoria nuova (appunto) o un insieme nuovo costituito solo ed esclusivamente da quell’oggetto caratterizzato da quella unicità, da quella specifica novità. Ed è dopotutto l’obiettivo di ogni scrittore di romanzi o cinema che oggi voglia cercare di conquistare un posto tra i grandi, cioè di scrivere un’opera che faccia categoria a se stessa, che sia un unicum.
La seconda sfumatura semantica invece include l’oggetto in una categoria dalla quale emerge per determinate caratteristiche, che nel ritratto di una “persona originale” sono descritte come stravaganze o bizzarrie, e che in un’opera d’arte traduciamo in deviazioni, cambiamenti, interpretazioni pur sempre generate da una norma, da un sostrato di per se esistente al quale le deviazioni, i cambiamenti e le interpretazioni ritornano. A questa seconda originalità affiancherei quella passata, o medievale.
In letteratura esiste un esempio pratico che mette in evidenza la differenza tra i due tipi di invenzione, ne attesta ad entrambi la grandiosità, e per di più smonta una classica credenza letteraria che contestualizzata recupera il valore di un autore e di un’opera altrimenti compromesso; mi riferisco a Boccaccio e a Chaucer, e prendo ad esempio due opere minori di questi due giganti del Medioevo: il Filostrato di Boccaccio e il Troilus and Criseyde di Chaucer.
Il Filostrato è un’opera giovanile di Boccaccio scritta durante il soggiorno napoletano del poeta probabilmente intorno al 1335, che si pone come esemplare nel tentativo di ristabilire proprio le regole dell’uso della veridicità dei racconti, delle storie, degli intrecci nei poemi del suo tempo. Nel corso della storia, già a partire dall’antichità, non pochi erano stati i detrattori dell’opera antica a partire da Omero, punto cardine del canone occidentale, che veniva accusato di essere stato imparziale narratore della disfatta dei troiani. Tra queste figure emergono tali Darete Frigio e Ditti Cretese, che si presentarono nelle loro opere come testimoni oculari o traduttori di manoscritti redatti proprio all’epoca dei fatti di Troia, che Omero aveva inventato e mutato a suo piacimento per rendere un falso onore ai greci.
All’interno di questa disputa la voce di Boccaccio espresse il desiderio e la necessità che la letteratura poco dovesse badare alla verità scientifica dei fatti ed introdusse, o reintrodusse, il gusto della finzione come elemento caratterizzante della letteratura, accostandosi probabilmente al modus operandi che consapevolmente o inconsapevolmente già utilizzavano i classici, e che invece il Medioevo aveva intorpidito, generando un afflusso esagerato di letteratura rigida perché capace di muoversi solo su binari unanimemente accettati come veri, e dunque senza pericolo di “eresie”. L’invenzione nel Medioevo non è contemplata nelle caratteristiche di un autore che ha così tanta letteratura “vera” da riscrivere, rileggere e interpretare che non ha il compito di farsi artefice di una finzione. Ditti Cretese e Darete Frigio nei loro tentativi più inverosimili che verosimili di spodestare Omero, dissotterrano però la finzione che c’è dietro quei classici e li spogliano dell’aura di verità assoluta, storica. Boccaccio col Filostrato ne coglie il senso e capovolge il tiro compiendo un’operazione che è tanto più moderna quanto più la inquadriamo in questo dogmatismo tipico del Medioevo: prende la guerra di Troia, ne seleziona due personaggi a malapena citati da Omero – Troiolo figlio di Priamo, e Criseida fanciulla troiana – e utilizzando lo scenario della guerra come sfondo vi costruisce una storia d’amore assolutamente frutto della sua immaginazione, che anzi ha dei tratti squisitamente autobiografici ed anche soprattutto moraleggianti, nel senso che il significato finale dell’opera scavalca la messa in scena, i personaggi e l’ambientazione, che agiscono come semplice veicolo di un insegnamento.
“Parla l’autore a’ giovani amadori assai brevemente , mostrando più nelle mature che nelle giovinette porre amore.
29
O giovinetti, ne’ quai con l’etate
Surgendo vien l’amoroso disio,
per Dio vi priego che vi raffreniate
i pronti passi all’appetito rio,
e nell’amor di Troiol vi specchiate
il qual dimostra suso verso il mio;
per che, se ben col cuor gli leggerete
non di leggieri a tutti crederete.”
(Filostrato, Boccaccio, parte ottava, stanza 29)1
Dall’altro lato abbiamo Geoffrey Chaucer, padre della lingua inglese moderna nella quale introdusse molti termini provenienti dalla cultura italiana del ‘300, con cui entrò in contatto durante i suoi viaggi di lavoro per conto del regno d’Inghilterra, che gli permisero (si pensa) di poter assistere alle Lecturae Dantis di Boccaccio stesso – la prima forma di esegesi della Commedia – e forse di parlare direttamente col poeta. Per certo sappiamo che conobbe l’opera di Petrarca, e che ricevette altre influenze rintracciabili proprio all’interno del Troilus and Criseyde.
Come già detto, l’originalità di Chaucer non ha nulla a che vedere con quella di Boccaccio, e ciò non è chiaro solo dal fatto che la sua opera è una riscrittura del Filostrato, ma soprattutto perché all’interno del poema stesso, il narratore-poeta si riferisce più volte al lettore, col quale instaura un rapporto di complicità che non ha con i personaggi del suo racconto, e lo invita ad essere comprensivo perché questa opera non è nient’altro che una riproposizione in lingua inglese di un poema di tale Lollìus (Boccaccio), e chiede scusa per eventuali rime che per le ovvie differenze linguistiche non potranno essere rese allo stesso modo. Citando la sua fonte, Chaucer si chiude volontariamente in un angolo dal quale non può uscirsene stravolgendo la storia in maniera arbitraria, ma è costretto ad essere aderente al sostrato di ambientazioni, personaggi ed eventi che gli giungono dal Filostrato. Tuttavia è impossibile che un poeta come Chaucer spenga totalmente la sua originalità, e così essa fuoriesce in altre maniere che vanno ricercate ad un livello più profondo e complesso che riconsegna risultati ovviamente più fini e meno immediati: innanzitutto il Troilus and Criseyde è un’opera del Chaucer maturo (1380 circa), quasi anziano, pertanto è inverosimile che segua le stesse linee di pensiero del giovanile Filostrato, che per certi versi è superficiale nella descrizione dei personaggi che Chaucer invece riempie di complessità e contraddizioni, facendo di Troilus – che in Boccaccio è immagine stereotipata del cavaliere gentile dell’amor cortese – un proto-Amleto incapace di muoversi, dannato nell’eterno dubbio se non condotto da Pandaro alla rivelazione del suo amore.
Il Troilus di Chaucer esagera molti vuoti del Troiolo di Boccaccio, e quando di quest’ultimo il poeta si limita a narrare che canta addolorato nella sua stanza, il suo alter ego inglese invece canta davanti a tutti i lettori una traduzione-interpretazione del sonetto 132 di Petrarca sull’amore, desiderato e indesiderato nel medesimo momento, e sull’innamorato, perso come una barca alla deriva in balìa dei venti.
“S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?
Ma s’egli è amor, perdio, che cosa et quale?
Se bona, onde l’effecto aspro mortale?
Se ria, onde sí dolce ogni tormento?” 2
Ci sono poi all’interno della narrazione citazioni dirette da Guinizzelli, come ad esempio “in gentil hertes ay redy to repaire”3 (“Al cor gentil rempaira sempre amore”), e citazioni meno dirette da Dante, come nell’anafora della parola “love”4 che richiama al Canto di Paolo e Francesca. 5
Proprio Francesca sembra il modello su cui è forgiata la Criseyde di Chaucer, spogliata della velata misoginia di Boccaccio, e rivestita di una forza incredibile (quasi femminista) con la quale combatte la debolezza di Troilus scegliendo la protezione di Diomede e non venendo scelta passivamente.
C’è ancora Guinizzelli nelle ultime stanze del poema che si spostano in Paradiso dopo la morte di Troilus – questo episodio totalmente assente nel Filostrato che si chiude con Troiolo ucciso da Achille -, che volge il suo amore a Dio dopo aver avuto esperienza della caducità dell’amore “solo” umano, e si unisce in un amore cosmico che prende in prestito il Metro VII della Consolazione della Filosofia di Boezio e chiude un’opera che paradossalmente dimostra quanto una “semplice” riscrittura possa conferire ad un’opera un’originalità così profonda che in superficie rimane intangibile, e che risulta talvolta addirittura rivoluzionaria. Si pensi in tempi più recenti ad altri tipi di riscritture, dal mito di Faust a quello eterno dell’Odissea, che fu materia di indagine non solo di Dante e Joyce, ma più recentemente di Jean Giono, Giraudoux, Kazantzakis e tanti altri fino a giungere agli anni ’90 con la poesia di Derek Walcott e Haroldo de Campos, e siamo sicuri che non finirà certo né ora né mai di attirare la mente degli artisti.
Note bibliografiche:
1 Filostrato, Giovanni Boccaccio, pag. 230, Einaudi, ed. di riferimento: Tutte le opere a cura di V. Branca, Mondadori, Milano 1964;
2 S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?, Francesco Petrarca, Canzoniere;
3 Troylus and Criseyde, Geoffrey Chaucer, Book III, v.5,;
4 Troylus and Criseyde, Geoffrey Chaucer, Book I, vv. 400-402:
“If no love is, O God, what fele I so?
And if love is, what thing and whiche is he!
If love be good, from whennes comth my wo?”;
5 Commedia, Inferno, Canto V, Dante Alighieri, vv. 100-107:
“[…]Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense»”.
Articolo a cura di Leonardo Passari