Amedeo, je t’aime
un romanzo di Francesca Diotallevi
«Mi chiamo Jeanne e questa è la mia ultima alba»
Si chiude così il preambolo del romanzo di Francesca Diotallevi, milanese, classe 1985, appassionata e studiosa di arte.
E, per qualche animo romantico, è già un brivido lungo la schiena.
Sembra di vederla, la giovane Jeanne, sul precipizio del balcone, mentre allunga il piede nudo oltre la ringhiera, nel vuoto di una notte gelida della Parigi agli albori degli anni ’20: eterea, fasciata in una vestaglia di veli bianchi che lascia intravedere il ventre già gonfio, senza più lacrime. Sembra di sentirla, la povera Jeanne, mentre bisbiglia un’ultima volta, ignara della lunga eco che le sue parole avrebbero perpetrato attraverso anni di vita, amori e guerre: «Amedeo, je t’aime».
L’Amedeo in questione, ça va sans dire, è il pittore italiano che innumerevoli cuori infranse in quegli anni di genio e sregolatezza, la cui grandezza non era ancora stata compresa: Amedeo Modigliani, detto Modì.
Il lettore, prima di tuffarsi in questa storia, può già immaginarselo l’artista maledetto dall’animo gentile, mentre snocciola versi di Baudelaire sotto la luna e bestemmia l’altrui indifferenza contro il cielo terso di Parigi. Nella mano destra il largo cappello, nella sinistra una bottiglia di vino mezzo scolata e nel petto un solo e inconsolabile tormento: la sua arte, maltrattata, mercificata, sottovalutata. Quello di Modigliani è uno struggimento senza soluzione, che lo consumerà lentamente, fino a vincerlo.
Non poteva immaginare, il povero Modì, che un giorno le sue donne dal collo lungo e gli occhi senza pupille avrebbero incantato il mondo intero.
Ma sul grande pittore di Livorno, a ben vedere, molto si è detto e scritto.
Per tale ragione, aggiungere altra letteratura a quella già esistente su Modigliani espone al rischio di cadere nella banalità, ripetersi o, peggio, rielaborare porzioni di studi autorevoli, con il risultato di produrre un lavoro di cui nessuno sentiva l’esigenza.
Ma Francesca Diotallevi ha un’intelligente intuizione: rovesciare il punto di vista, cambiare l’inquadratura, calarsi nelle vesti della diciannovenne parigina di estrazione piccolo-borghese che frequentava gli ambienti di Picasso, Soutine, Utrillo e gli altri pittori della bohème di Parigi. Nota ai posteri come Jeanne Hébuterne, di Amedeo Modigliani “devota compagna sino all’estremo sacrifizio” (come recita il suo epitaffio), morta suicida
all’indomani della scomparsa del bell’italiano di Montparnasse. O più semplicemente, all’hic et nunc della storia, noix de coco (noce di cocco), come la chiamavano le amiche più intime per la generosa chioma di capelli castani venati di rosso che le incorniciava il volto.
Parla in prima persona la Jeanne della Diotallevi e con una scrittura asciutta e profondamente femminile – tale aggettivo è da intendersi nella sua migliore accezione: delicata, sensuale, chirurgica nella descrizione della materia sentimentale -ci regala tutta la sua umanità.
Fin dal titolo, la Jeanne di “Amedeo, je t’aime”, sembra porre l’accento su se stessa, sul proprio io.
Pur rispettando il più possibile gli eventi reali e le caratteristiche dei personaggi, la Diotallevi si concede uno spazio per rimescolare fatti storici e fantasia e ci consegna una storia dalle sfumature sensibilmente diverse: la giovane parigina dai profondi occhi azzurri, in questa vicenda segnata dal protagonismo incontrastato del dannato e fascinoso Modì, si riprende la scena e pretende di essere qualcosa in più della timida ragazza dal volto imbronciato che vive nella totale abnegazione all’ombra dell’artista.
Il racconto di Jeanne assume la forma di un diario, per tale ragione appare come una narrazione segreta, sussurrata, che ha il sapore della confidenza: dal primo incontro al riconoscimento dei precoci segnali che precedono l’innamoramento, fino al culmine dell’eros nella camera di hotel in cui un’inedita Jeanne, sfacciata e sensuale, appunta la folta chioma sulla nuca e chiede al pittore di ritrarla nuda com’era alle prime luci dell’alba, dopo la loro prima notte di amore. Sa che ciò che la unisce al suo Modì è un sentimento carnale di cui entrambi non possono fare a meno: «sapevo che sarebbe venuto da me perché quello che ci univa era più potente di ogni ragionevolezza: separati non avremmo resistito a lungo». Lo necessita e farà di tutto per vivergli accanto, impermeabile ad ogni convenzione sociale, ai valori della cattolicissima famiglia Hébuterne che condanna la relazione con l’italiano ebreo.
C’è dell’altro, però, oltre alla determinazione del sentimento, a caratterizzare l’immagine di Jeanne in questo romanzo. L’autrice ci schiude l’animo della donna che con Amedeo cavalcò la perdizione («avevamo danzato sull’abisso, tentando di afferrare le stelle»), che visse in osmosi con la sua arte bistrattata, assistendone alla genesi, comprendendola per prima, instaurando con essa una dialettica ed esercitando una critica attenta. Lo studia, lo sostiene, ne osserva le opere e le interpreta con piglio di studiosa, seguendone l’evoluzione.
Quello che ne ricaviamo è il ritratto di una donna con una personalità più complessa e definita, il cui punto di vista risulta autorevole e interessa e attrae il lettore: «mi sorprendeva notare quanto la vita di Amedeo si discostasse dalla sua opera: tanto sregolata la prima quanto estremamente misurata la seconda». Jeanne lotta contro la propria gelosia, supera la leggenda che la vuole ossessionata dalla fama di amateur che precede il bel Modì, e riflette sui suoi nudi: «Linee pulite, curve sinuose, colore avvolgente; e quei volti enigmatici, talvolta conturbanti, talvolta pieni di tenerezza».
Materia sentimentale e approfondimenti sull’opera di Modigliani si mescolano annullando i loro confini: attraverso l’occhio fine di Jeanne-Diotallevi entriamo in contatto in modo più diretto, familiare e umano con l’universo di Modigliani, con il suo modo di intendere e approcciare il lavoro artistico, verso cui Jeanne, in queste pagine, si pone in modo quasi profetico. Il suo personaggio gioca un ruolo attivo e determinante nell’affermazione dell’artista, lo sprona, lo supporta senza indugi, crede senza remore nel suo talento: «un giorno tutti conosceranno il tuo nome», sussurra all’amante per afferrarlo quando, in preda allo sconforto provocato dal mancato riconoscimento, cade nel baratro dell’alcol e dell’assenzio, vittima dei suoi demoni.
La dolce noix de coco leva la sua voce – che in questi passaggi immaginiamo non tremula e sommessa, ma decisa, lucida e consapevole – e attraverso l’espediente del diario-confessione ci invita a riflettere sull’opera di Modigliani, fornendoci materiale prezioso per comprendere il suo tormentato rapporto con l’arte, il peso che ebbe nelle loro vite strampalate, condannate dalla brevità del tempo che incombeva sui loro destini.
Attraverso una scrittura senza fronzoli e pomposità – la narrazione, infatti, non risulta mai melensa o celebrativa, né scade negli usurati cliché del mito di Amedeo (e Jeanne) – l’autrice osa e, pur con rispetto, reinventa laddove è concesso. Il risultato è un racconto credibile, da leggere tutto di un fiato, emozionante, che propone una prospettiva di osservazione affascinante: la storia di un genio in bilico tra il miracolo della creazione artistica e le nevrosi della dimensione privata, con l’animo conteso tra gli années folles della Rotonde di Montparnasse e il focolare domestico di Rue de la Grande – Chaumière da cui Jeanne – con occhi fermi di ghiaccio e lunghe trecce che accarezzano il ventre materno – veglia su di lui, certa di vederlo tornare.
“Amedeo je t’aime” spara l’occhio di bue sul manto purpureo dei capelli di Jeanne, inchioda il lettore alla sua personalità, lo costringe ad occuparsi di lei, ad empatizzare con la sua storia. Rende giustizia al suo sacrificio, alla parte che ebbe nella vita e nell’opera dell’artista visionario con cui, per il breve periodo in cui si amarono, fu tutt’uno.
Così sceglie di vivere con lui. E di morire, senza di lui, mentre il palpito di un piccolissimo cuore già si insinuava nel suo grembo.
Sceglie, appunto, rivendicando il diritto di perseguire il sogno d’amore a cui si sente votata, ben oltre la vita.
Sembra saperlo, la giovane Jeanne, che quell’uomo l’avrebbe consegnata all’eternità.
Così ci piace immaginarla: fiera, le mani che accarezzano la rotondità del ventre, mentre presta la sua figura all’occhio di lui, con devozione marmorea, affinché possa imprimere su tela ciò che gli altri non vedono: la sua anima.
Un’anima che ora, grazie al romanzo di Francesca Diotallevi, ci sembra di conoscere, e amare, ancora un po’ di più.
Articolo a cura di Valentina De Nicola