Leopardi e Saffo
la fragilità disvelatrice di due anime speculari
Partiamo da qualche cenno sulla vicenda editoriale del testo, che mai deve essere vista come mera e sterile rassegna di informazioni noiose; quasi sempre la storia editoriale di un testo nasconde profondità imperscrutabili, dato che si ha a che fare con l’invisibile.
L’Ultimo canto di Saffo, scritto nel maggio del 1822, era situato in ottava posizione nell’edizione delle Canzoni uscita a Bologna nel 1824; collocato tra Alla Primavera, o delle favole antiche (gennaio 1822) e l’Inno ai Patriarchi, o de’ principii del genere umano (luglio 1822). Nell’edizione fiorentina del 1831 va invece ad occupare il nono posto, stabilizzandosi lì anche nell’edizione napoletana del 1835. Tale posposizione si può spiegare attraverso due congetture: l’intenzione di Leopardi di avvicinare Alla Primavera e l’Inno ai Patriarchi, collegate dagli stessi nuclei tematici, oppure la volontà manifesta di chiudere il gruppo delle canzoni con l’Ultimo canto, anello di congiunzione stilistico tra queste e gli idilli. Nel manoscritto il poeta dichiara di aver impiegato sette giorni nella stesura di questo testo, inoltre nello stesso autografo è presente una postilla, ai vv. 68-70, che porta in calce la data di domenica 19 maggio 1822, considerata terminus ad quem della composizione, svoltasi tra il 13 e il 19 maggio, anche se non sarebbe del tutto improprio supporre che la stesura sia stata preceduta da una lunghissima elaborazione non affidata alle carte. L’autografo è tra i più tormenti delle cosiddette “Carte napolitane”, sommerso da cancellature e glosse, assediato da varianti e correzioni in interlineo con diverse penne, tanto che solo attraverso un’attenta analisi filologica si può approdare alle profondità che cela il banco di lavoro leopardiano, ricostruendo non solo il testo ma anche l’iter psicologico e contestuale che porta Leopardi da questa variante all’altra, da quella ragione stilistica a questa ragione poetica. Uno dei motivi principali che spiegano il caos di tale manoscritto (costituito da tre foglietti piegati in quattro, dunque dodici facciate non numerate) è strettamente collegato al genere della canzone, e dunque a quella «dotta lira» che persuade il poeta a nutrire di eloquenza il suo stile.
In questa stagione particolare e tormentosa della poesia leopardiana, il poeta si dedica alla lettura della quindicesima epistola delle Heroides di Ovidio, quella dedicata a Saffo, l Ἁγνή (pura), grazie ai volgarizzamenti che di quest’opera aveva realizzato Remigio Nannini. Una delle maggiori poetesse di tutti i tempi, Saffo, che le leggenda, perduta e corrotta nei secoli, vuole di bruttissimo aspetto, per questo motivo respinta dal giovane Faone e da ciò indotta a gettarsi in mare, in tarda età, dalla rupe del Leucade, portando con sé ogni ingannevole auspicio d’amore. Da subito ci accorgiamo che in Leopardi pochissime tracce sono quelle che rimangono della Saffo come personaggio storico-letterario, quanti fili bastano per ricostruire la sottile trama della sua vicenda e nulla di più. Il poeta si lascia trasportare dalla propria potenza creativa, collocando Saffo in una dimensione atemporale, e dunque poeticissima, poiché vaga e indefinita, approdando a nuove e personali considerazioni: Saffo è qui giovane, preda della sua altezza d’animo e vittima di sé stessa, perché intrappolata in un corpo che non metterà mai in luce tale sensibilità agli occhi degli altri, ma che comunque rimane parte materiale del suo essere, il veicolo tangibile dei suoi sentimenti. Inaspettatamente, il primo conflitto a prendere forma è quello con sé stessa, sarà solo in un secondo momento che verrà esteso alla natura, meravigliosa costruzione perfetta, che annienta inesorabilmente Saffo e la spinge al suicidio:
«Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella/ sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta/ infinita beltà parte nessuna/ alla misera Saffo i numi e l’empia/ sorte non fenno» .
Albert Camus nel Mito di Sisifo scrive: «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamenta
le della filosofia.»
Leopardi ha delle idee ben precise riguardo al suicidio, tali da porre delle differenze storiche sostanziali tra gli antichi e i moderni: per gli antichi il suicidio era un atto eroico, passionale, violento e vivo, ultima disperata scelta dovuta al manifestarsi di personali sventure e quindi, al tempo stesso, ultimo febbrile grido all’amor vitae. I moderni si uccidono, invece, per noia: la sordità e l’analfabetismo emotivo che ci abitano generano nell’animo dell’uomo
moderno quel taedium vitae che trova come unico approdo il morire. La differenza più sottile e allo stesso tempo fondamentale (sono i particolari frammentari che restituiscono l’intera, cristallina visione leopardiana) sta nella diversa interpretazione dell’infelicità umana: dal canto loro, gli antichi, hanno una visione personalistica della realtà, ciò che accade è strettamente legato all’individuo, non all’uomo come categoria universale, dunque è l’individuo in sé a portare il peso di una sciagura e a metterle fine con il suicidio. È per questo che, ad esempio, Aiace decide lucidamente di togliersi la vita: simbolo vivente dell’αρετή eroica, secondo per valore e volontà d’azione soltanto ad Achille, nella tragedia sofoclea Aiace, a causa di un orrido gesto compiuto per follia, una volta rinsavito si dà la morte con la spada di Ettore per riscattare il proprio onore. E’ in questo modo che, presso gli antichi, si conquista il κλέος, la gloria imperitura. Tale visione individualistica e glorificatrice è fuori dall’orizzonte moderno, i contemporanei di Leopardi si tolgono la vita perché vedono l’infelicità come una condizione universale e quindi inesorabile, l’odio diviene così un odio cosmico, rivolto alla vita come vita umana. Nella categoria del suicidio antico rientra la nostra Saffo, la quale rappresenta l’errore a cui non si può porre rimedio, l’unica falla in un sistema ineccepibile ed ordinato; Saffo è l’ordito malconcio e, di conseguenza, rifiutato da quella perfettissima tela che è la natura. Da questa situazione non ne uscirà vittoriosa, Saffo non agisce, non è artefice del proprio destino, bensì lo subisce in tutta la sua spietata crudeltà; Saffo è vittima dell’immensa bellezza che la circonda, di cui non farà mai parte, la sua sofferenza è causata da quel cieco dispensator dei casi che non risparmia nessun uomo mortale, ciò viene messo in evidenza dalle parole d’augurio, velatamente mordaci, rivolte a Faone ai vv. 61-62 «Vivi felice, se felice in terra visse nato mortal». L’origine di tale disumana crudeltà sembra essere congenita alla stessa Saffo:
«Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso/ Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo/ Il ciel mi fosse e di fortuna il volto? / In che peccai bambina, allor che ignara/ Di misfatto è la vita».
Si è spesso giunti all’ingannevole e frettolosa conclusione che, dietro Saffo, sofferente e arrendevole, ci sia lo stesso Leopardi e che dunque il poeta non abbia fatto altro che descrivere sé stesso e la propria condizione. In parte ciò è vero, quantomeno la prima radice affonda in questa visione, ma tutto lo sviluppo del pensiero leopardiano segue altre trame che sarebbe opportuno ripercorrere per evitare che il bandolo della matassa si presti ad inestricabili nodi e grossolani equivoci.
Leopardi stesso ha sempre mostrato un atteggiamento di protesta contro quei nemici che riducevano la sua visione pessimistica a mero riflesso di una condizione personale, avulsa quindi da qualsiasi legittimità generale (tesi che nasce da Niccolò Tommaseo e che viene riutilizzata in seguito da Benedetto Croce) . Che la deformità fisica abbia contribuito in qualche modo all’origine della Weltanschauung leopardiana è indubbio; e se però questa sua condizione fisica non fosse la causa scatenante ma bensì, più semplicemente, il mezzo attraverso cui Leopardi arriva a determinate conclusioni? È proprio attraverso il dolore personale che Giacomo sviluppa una consapevolezza precoce e pungente del profondo rapporto di dipendenza che lega la natura all’infelicità dell’uomo in quanto essere umano. La Bruttezza di Saffo, come quella di Leopardi, svela l’arcana verità celata dalla natura stessa, una verità meschina e per questo nascosta agli occhi della maggioranza. Ecco dove risiede la grandezza del poeta, che fa della propria malattia uno strumento conoscitivo, e dell’uomo, che trasforma il proprio dolore nel coraggio che gli permette di non ridurre la propria esperienza ad un mero fatto biografico ma di utilizzarla come potenza creatrice e disvelatrice. C’è una stratificazione ben precisa nei metodi epistemologici leopardiani che presuppone diversi passaggi intermedi, la visione semplicistica e superficiale che predomina nell’immaginario comune è derivata dal peso ipertrofico e dall’ interpretazione esasperata che talvolta si dà a lettere come questa, indirizzata al Giordani, del 2 marzo 1818:
«Ho potuto accorgermi e persuadermi, non lusingandomi, o caro, né ingannandomi, che il lusingarmi e l’ingannarmi pur troppo m’è impossibile che in me veramente non è cagione necessaria di morir presto, e purchè m’abbia infinita cura, potrò vivere, bensì strascinando la vita coi denti, e servendomi di me stesso appena la metà di quello che facciano gli altri uomini, e sempre in pericolo che ogni piccolo accidente e ogni minimo sproposito mi pregiudichi o mi uccida: perché in somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l’aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell’uomo, che è la sola a cui guardino i più; e coi più bisogna conversare in questo mondo: e non solamente i più, ma chicchessia è costretto a desiderare che la virtù non sia senza qualche ornamento esteriore, e trovandonela nuda affatto, s’attrista, e per forza di natura che nessuna sapienza può vincere, quasi non ha coraggio d’amare quel virtuoso in cui niente è bello fuorché l’anima»
Saffo è sì l’alter ego di Leopardi ma solo per la grande fragilità che ha permesso loro di squarciare il velo delle illusioni e di pervenire ad un materialismo dissacrante, unica e aberrante soluzione alle aporie della realtà contingente: l’uomo non è che una menomissima parte dell’universo e la natura segue il suo corso di produzione-distruzione indipendentemente dal volere e dai sentimenti del singolo e dell’umanità intera.
Articolo a cura di Giorgio Grande
Immagine in evidenza: Edvard Munch, Melancolia, 1894-1896