Il dramma di Elettra secondo Sofocle
L’Elettra è una tragedia di Sofocle che fu rappresentata, probabilmente, nel 418 a.C. e si colloca alla fine della produzione dell’autore. La trama segue molto da vicino il mito, così come la strutturazione drammaturgica, ma, a differenza di quello, possiede un’indagine psicologica che si insinua in profondità, com’è in realtà tipico di Sofocle (si vedano altre tragedie, anche di molto precedenti come l’Aiace o il Filottete). Quest’indagine psicologica porta sulla scena un’Elettra consapevolmente protagonista, come mostra la risposta della fanciulla al coro nel primo antisistema:
Per consolarmi dei miei dolori
veniste, o figlie d’eroi magnanimi,
lo so, lo intendo, non son dimentica.
Ma non per questo posso desistere
che l’infelice padre io non plori.
O voi che d’ogni grazia remunerate l’amicizia mia,
vi supplico, lasciatemi
a questa mia follia.
E il senso di compiutezza psicologica del personaggio permane fino alla conclusione. La vicenda prende le mosse dal ritorno di Oreste a Micene, pronto a vendicare la scelleratezza dei due amanti, Clitennestra, sua madre, ed Egisto, che hanno ucciso Agamennone, suo padre. Elettra vive struggendosi nella speranza di questo ritorno e macerandosi nell’odio verso i due assassini, a differenza della sorella Crisotemide, sottomessa e soggiogata dalla madre, che Madre si chiama; e in nulla a madre è simile (trad. Ettore Romagnoli) e dall’amante. Oreste, dunque, fa ritorno a casa con il pedagogo, inscena la propria morte e ha conferma, da un lato, dell’inveterato odio della madre, dall’altro del genuino ed immutato affetto della sorella, perciò, dopo essersi fatto riconoscere, organizza insieme a lei il piano. Uccide la madre nel palazzo, mentre questa invoca pietà, e trascina Egisto a morire nella stessa stanza in cui già aveva perso la vita Agamennone. Tuttavia, se l’inizio è incentrato sulla presenza di Oreste a Micene, Sofocle, in seguito, insiste sulla paradossale situazione in cui la principessa, Elettra, è ridotta a vivere, schiava nella sua stessa reggia e colpevole soltanto di quella che, alcuni secoli più tardi, Virgilio chiamerà pietas: il rispetto dei padri, in questo caso, del padre. Quasi come per l’Enea di Virgilio, la determinazione della principessa non sembra piegarsi alle suppliche di Crisotemide né alla crudeltà della madre. Unicamente la falsa notizia della morte di Oreste sembra scalfire, per un momento, la sua tetragona capacità di sopportazione, che si sgretola in un delirio dirompente per la perdita definitiva di qualsiasi possibilità di riscatto. Elettra diviene improvvisamente cosciente che l’odio e il risentimento covato per tanto tempo è vano, inutilizzabile, mentre lei è rimasta, apparentemente, sola con il proprio dolore. In effetti l’agnizione tra i due fratelli costituisce il punto di svolta del dramma e, ancora una volta, è Elettra che esorta, con una lucidità sconcertante, Oreste a compiere la vendetta definitiva. Ma c’è dell’altro. Sofocle, infatti, non considera la vendetta come mero atto a termine di una lotta parricida e matricida, ma, anzi, è pronto a gettare un ponte verso una riflessione di più ampio respiro che ci permette di accogliere senza pretese l’attualità della sua poetica. Il protagonista, qui, è il dolore, di Elettra beninteso, che si configura come follia omicida, alla stregua di una propulsione continua ad agire e alla solitudine. La supplica di Elettra al coro nell’antisistema già citato non è forse una supplica ai fantasmi della propria mente? Sembra chiedere pietà, che ottiene con la vendetta, ma unicamente perché in seguito a questa si staglia chiaro, fulgido, l’orizzonte del “giorno estremo”. Come appare chiaro anche in Edipo Re, il mortale, l’uomo e in questo caso Elettra, può dirsi felice unicamente quando giunge all’ultima ora, l’ora in cui il coro, e i “fantasmata”, ossia le ombre di un’immanenza intollerabile, eco dell’Agostino di De Civitate Dei, cessano di chiedere con insistenza conto della vita d’ogni mortale e vengono, per così dire, “erasi” ovvero cancellati dalla trascendenza eterna.