C’è ancora bisogno di Umberto Saba
Oggi, 23 novembre, presso l’Università di RomaTre, Stefano Carrai ha dialogato con studiosi e studenti presentando la sua monografia su Umberto Saba.
Bisogna anzitutto scrivere che Carrai stesso è un poeta, con due raccolte già pubblicate: Il tempo che non muore (Interlinea, 2012) e La traversata del Gobi (Aragno, 2017). Quest’ultima, del 2017, con cui l’autore ha vinto il premio Viareggio-Rèpaci, è edita proprio in contemporanea alla sua ricerca per ‘Saba’ (Salerno, 2017). Il forte legame tra Carrai e il soggetto della sua ricerca è esemplato, oltre che da alcuni interventi critici sparsi nel tempo, da una poesia dedicata proprio al triestino che cammina ‘con il suo basco in testa/ e con pipa e bastone’, o piuttosto affine a come un altro grande poeta del Novecento, Vittorio Sereni, ha vissuto e percepito Saba.
Parlando, Carrai vuole contestualizzare un autore che nacque in una Trieste non ancora italiana, una città storicamente poliglotta, aperta prematuramente alla giovane psicanalisi, in un clima culturale dove l’influenza mitteleuropea era più forte che altrove. Nella città natale egli ebbe modo di conoscere tante personalità di spicco e nei primissimi anni del Novecento iniziò a scrivere, in un linguaggio tuttavia più ottocentesco, tutto orientato verso la poesia del secolo appena concluso, dove il nume era il vate D’Annunzio. Gli epigoni di quest’ultimo avevano avuto la grande colpa di lasciare che la poesia italiana dipendesse ancora da un modello inadeguato al passare dei tempi, una poesia simbolista, artefatta (nel senso più semplice di ‘fatta ad arte’), che ignorava la realtà dell’uomo contemporaneo, alle prese con un mondo nuovo. Insomma, una poesia attempata. Saba, maturando, seppe però superare l’angoscia dell’influenza dannunziana, pur tornando spesso al maestro dei suoi esordi poetici, anche in un ricordo tardo dove veniva ironicamente rievocato il loro incontro piuttosto deludente in Versilia.
Attraverso diversi esempi Carrai ha spiegato come Saba fosse afflitto da nevrosi continue che lo accompagnarono durante tutta la vita, come la nascita in una famiglia già divisa in partenza, o poco dopo la dolorosa separazione dalla balia slovena, Peppa, un vero e proprio primo trauma infantile, una donna che il poeta rievocherà sottotraccia, deformandola teneramente nella memoria, durante il cammino delle sue raccolte.
Nella poesia di Saba, forse più che in quella di altri poeti, la vita e l’opera si saldano in un nesso inscindibile. Se confrontiamo ciò con il profilo culturale di Carrai, dove il poeta e l’intellettuale convivono, questa monografia assume un significato ancora più profondo.
Carrai studia anche un Saba piuttosto trascurato dagli altri commentatori, cioè l’autore di prose. Basti ricordare ‘Storia e cronistoria del Canzoniere’, un commento a sé stesso in versi che nasce tra le altre cose anche dalla necessità di interpretare, chiarire la sua poesia, laddove, a parer suo, quasi tutti i critici lo avevano frainteso. Scorciatoie e raccontini (1946) è invece una raccolta di aforismi che ha tra i modelli quello della Gaia Scienza di Nietzsche in cui l’autore, per la grande dignità letteraria della breve raccolta, stupisce il lettore che non era ancora uscito dal locus amoenus delle sue poesie. Saba scrisse poi racconti e tentò senza convincere con il teatro. ‘Ernesto’ è il suo romanzo incompiuto; uscì postumo, facendo scalpore per quell’omosessualità così spudoratamente esibita (ma in realtà presente in filigrana, allusa con discrezione, anche nella sezione del Canzoniere chiamata ‘Vecchio e giovane’).
Ernesto è stato interpretato troppo approssimativamente. Ricorda, con le dovute differenze, un altro romanzo incompiuto e postumo del Novecento italiano, accusato a sua volta di dare vita a un immaginario scandaloso: Petrolio (1992) di Pasolini, banalizzato e ridotto alla scandalosa scena dell’appunto 55, quella del pratone della Casilina.
Saba, in una lettera alla figlia Linuccia del 17 agosto 1955, arriva perfino a pregarla di bruciare quello che considerava niente più che un ‘romanzetto incompiuto’. Da Virgilio a Kafka, la volontà di dare alle fiamme la propria opera è un topos che attraversa trasversalmente le storie letterarie.
Ancora una volta, uomo e io poetico entrano in sinergia. Ernesto lascia emergere il passato del suo autore, come con la Trieste dei primi anni, la famiglia, la sessualità (eterosessuale prima, omosessuale poi). È un romanzo di formazione purtroppo sottovalutato dalla critica che, ci dice Carrai, dagli anni ‘80 si è parzialmente disinteressata di un Saba che insegna ancora cos’è la poesia.