Marco Miglionico
pubblicato 7 anni fa in Letteratura \ Recensioni

Letteratura e sofferenza

Tutto quanto è possibile imparare dal dolore

Letteratura e sofferenza

Autunno tedesco è il ritratto di una stagione: quella solare, caratterizzata da una inclemente nota di grigio, che prende tutto e tutto ammanta, e quella storico-culturale, seguente la Seconda Guerra Mondiale. Stig Dagerman, attraverso i tredici articoli raccolti nell’opera, condensa la sua esperienza del dolore di una nazione dilaniata,

sventrata – come lo sono le facciate dei palazzi – dai bombardamenti degli Alleati e dalle profonde ingiustizie, dagli ipocriti divari che ora la lacerano.

«Singoli muri rimasti in piedi con finestre senza vetri che come occhi spalancati guardano giù verso le rotaie, indefinibili resti di case con ampie e nere tracce di incendio, resti alti e arditamente scolpiti come monumentali alla vittoria, oppure piccoli come pietre tombali di media grandezza» (dall’articolo Rovine raccolto in Autunno tedesco).

Il mondo intero nel 1946 veniva ridisegnato politicamente e geograficamente, perché annientato dalla guerra appena trascorsa, e senza le barriere finora erette era possibile scorgere nitidamente che la guerra aveva ridisegnato anche i confini etici tra coloro che stavano dalla parte della ragione, la più affollata, direbbe Brecht, e gli altri, ovvero i

Fotogramma dal documentario di M. Gaunitz, Automn allemand (1946).

Tedeschi, che ora erano agli occhi di tutti i colpevoli. Era facile, al tempo, dimenticare le colpe che ciascuna nazione europea ebbe avuto nelle dinamiche della guerra, e ottenere – trovato il capro espiatorio – la propria assoluzione, la possibilità di ripulire le proprie coscienze. Dagerman, però, non intende sollevare il popolo tedesco dalle proprie

responsabilità verso il Nazismo hitleriano, ma esplora le sfumature tra queste categorie umane, passando attraverso gli strati più infimi della società, laddove sono concentrate tutte le ingiustizie che, ugualmente, vincitori e vinti portano avanti. Umilissimo tra i più umili, lo scrittore svedese partecipa compassionevolmente alla storia dei vinti e ne ricava un insegnamento: il forte senso di angoscia e di colpa, che avrà tempo di elaborare soltanto una volta rientrato a casa, in una Svezia troppo neutrale, anche durante il conflitto, e piena di quelle contraddizioni che la sensibilità di Dagerman mal sopportava. Nell’ultimo articolo, Letteratura e sofferenza, Dagerman riflette, mentre è in volo verso la Svezia, sul bisogno fondamentale di elaborare il dolore di cui ha visto le tracce in Germania, che diventa – elaborato in alcune «righe penose», dirà così più tardi di qualche stentato verso per la morte del nonno tanto amato -, urgenza e monito politico.
A guidare la sua indagine, modernissima quasi fosse un dossier, è la bussola dello scetticismo verso la ragione comune, il pensiero unico, e quella dell’anarchia, che lo scrittore ha in mano per orientarsi tra le rovine e la bruma di quell’autunno tedesco, rinunciando a ogni parzialità, politica prima di tutto, a favore completo della lucidità di analisi. A ragion di ciò, quando Autunno tedesco venne pubblicato nel 1947 in volume, la critica fu divisa: c’era chi ne apprezzava la qualità letteraria, la capacità di descrivere con crudezza la realtà dei vinti senza scadere nel sentimentalismo; al contempo c’era anche chi non ne condivideva l’analisi politica, convinto che Dagerman avesse trovato soltanto un rifugio nell’anarchia per sospendere una presa di posizione allora urgente e necessaria. Eppure il libro fu un autentico successo, tanto che fu necessario ordinarne una ristampa a poche settimane dalla prima edizione, a conferma del fatto che la cognizione del dolore di Dagerman era politica, come politica era l’esigenza di tutti di comprendere la storia vera.
Dagerman ha avuto, senza dubbio, il merito di sollevare la cortina di omertà, di svelare quel tabù che era diventato per gli Europei «l’infamante segreto della distruzione» (W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione, p. 23). Nessun autore tedesco, a eccezione di Nossack, seppe prendere una posizione sul Nazismo e la sua storia, ma Dagerman assunse su di sé il peso dello sguardo, «la responsabilità di raccontare ciò che per quasi tutti era meglio lasciare sepolto fra le macerie» (G. Fontana, L’autunno di Stig, p. 148).
Il forte umanismo dell’autore lo spinse fra i vinti, cioè i tedeschi, per esplorare le contraddizioni che opponevano i vinti ai più vinti, allorquando altre ingiustizie venivano perpetrate dallo stesso popolo che, nell’autunno del ’46, ancora non aveva imparato. Dagerman spiega, infatti, che un popolo soggiogato dalla distruzione e dalla fame non può apprendere nulla, perché la realtà deve farsi vecchia prima di poter essere reale, quindi compresa. Scrive, a più riprese negli articoli, «la fame è una pessima maestra» perché i colpevoli possano apprendere le proprie colpe, in maniera sincera e – come Dagerman ha invece compreso – umana. Nel 1946 non era affatto scontato scrivere questo, così come non lo era denunciare la profonda incoerenza di certi tribunali speciali nati nel processo di denazificazione che a Dagerman, il quale ne assistette ad alcuni, ricordano tanto il Processo kafkiano, pieno di personaggi alienati come «persone senza esistenze riconosciute».

 

Stig Dagerman, Autunno tedesco (traduzione italiana a cura di M. Ciaravolo, Iperborea 2018).