Culturificio
pubblicato 7 anni fa in Letteratura

I ciechi di Saramago

Cecità e paura

I ciechi di Saramago

Ci sono alcuni libri che non sono facili da leggere, storie difficili da raccontare, frasi dette all’orecchio in un soffio, con le dita che si chiudono a conchiglia attorno alla bocca, per non far uscire le parole, per far sì che non tutti sentano. Ci sono paure che non tutti abbiamo, ossessioni irrazionali che non sveliamo a nessuno, debolezze inconsce che custodiamo come oscuri segreti. La paura ci rende fragili, ci fa sentire come se camminassimo nudi su un tappeto di vetri rotti: vulnerabili, inermi, spaventati di compiere il passo che potrebbe rivelarsi fatale, avanziamo a tentoni. Come ciechi.

I ciechi piangono?

I ciechi di Saramago sì, i ciechi di Saramago piangono di paura, i ciechi di Saramago sono fatti di paura, e di paura si nutrono. Trasudano lacrime, sudore, merda e puzzo dagli occhi, dalle bocche spalancate, dalle orecchie pronte a captare ogni frammento di vita e di morte, dalle punte delle dita che toccano, accarezzano, uccidono, baciano. I ciechi di Saramago non li riesci a guardare dritti in volto, i ciechi di Saramago li leggi come un bambino guarda una scena di mostri, con le mani sugli occhi, le dita serrate a filtrare la luce, il volto e gli occhi girati, le sopracciglia aggrottate, la bocca sconvolta. Temi di guardarli fino in fondo, hai paura che il morbo che ha preso loro possa cogliere un giorno anche te, leggi dei loro passi malfermi, ripensi a quando ti coprivi gli occhi per gioco e vagando a tentoni nel buio dicevi: vediamo cosa si prova ad essere ciechi.

La cecità che invade i personaggi di Saramago è però bianca, un lenzuolo pulito che un giorno cala sugli occhi di chi prima vedeva e ora è perso nel vuoto e si ritrova a vagare in un mare di latte senza onde. È cecità bieca quella che li coglie: male incurabile e metamorfosante, non si limita solo a portare via loro la vista, è in grado trasformarli in quello che non erano, in quello che forse sono sempre stati e che hanno sempre tenuto nascosto. Li osserviamo tramutarsi in esseri curvi e privi di grazia, in grado di cibarsi solo di ciò che ancora li tiene in vita: paura. I ciechi di Saramago mangiano paura, sniffano paura, il loro corpo si dissolve nel bianco che non vedono, odorano di paura le loro feci, è paura tutto ciò che toccano. Squallidi Re Mida di un mondo che hanno perso, vagano soli fra altri ciechi, in una deriva lattiginosa che sembra non avere confini, e invece li ha. Sono le pareti dell’ex manicomio, struttura abbandonata in cui il premuroso governo ha deciso di rinchiuderli in una quarantena a tempo indeterminato, nella speranza di arginare quella che sembra essere un’epidemia, un morbo bianco che un giorno si è manifestato senza avvisare.

Un giorno la cecità è arrivata nel mondo – o era sempre stata lì, nascosta, in attesa? – per dominarlo, farlo suo, come un insegnamento, una premonizione, volto impassibile di una spietata Provvidenza.

Smistati in grandi camerate, i ciechi dovranno essere in grado di autogestirsi senza alcun aiuto esterno. Un altoparlante tutti i giorni puntuale recita una litania che ricorda loro che sono soli: dovranno lavarsi, seppellire i loro morti, spartirsi il cibo quotidiano. L’esercito è lì, di guardia, non un passo falso è concesso.
Chi sono questi ciechi? Non ha importanza, questi ciechi non hanno nomi, hanno solo voci per gridare la pena, stomaci per soffrire la fame, unghie per grattare lo sporco e il cibo da sotto le dita, ginocchia da trascinare al suolo, quando per i morsi della miseria e della sete e dello schifo e della morte cadono nei corridoi coperti di melma e di fluidi, con i volti al soffitto verso un cielo che non c’è, e che loro temono mai più sarà. Sono nugoli e gomitoli di paura che arrancano stravolti, in loro cerchiamo l’umano noi che ne ricordiamo i contorni, in loro osserviamo il disumano noi che possiamo ancora riconoscerlo. Loro non sanno più. Loro non possono più.
Chiusi fra le pareti di una caserma, chiusi nelle stanze della mente, i ciechi di Saramago recuperano l’animalesco e il selvaggio che l’uomo ha cercato per anni in tutti i modi di nascondere. Ma in un mondo in cui nessuno vede, chi davvero potrà mai giudicare? Chi giurerà di non aver rubato il cibo del compagno? Chi davvero potrà dire di non aver ucciso, di aver pregato tutte le sere, di essere rimasto fedele al coniuge, di non aver sperato nel buio delle infinite notti bianche di morire senza far rumore, come un albero che cade nella neve, come un muto che urla il proprio nome?
È Saramago a tendere i lembi di questa coltre bianca, pesante, densa -ma traslucida e leggiadra- che fa calare come nebbia sui suoi personaggi, sulla città che ancora brulica di vita -o di morte?- al di fuori. Chi c’è, fuori? Cosa c’è ad attendere i ciechi, là fuori?

Eravamo già ciechi nel momento in cui lo siamo diventati, la paura ci ha accecato, la paura ci manterrà ciechi.

Articolo a cura di Chiara Muzzicato


José Saramago, Cecità, Torino, Einaudi, 1996.

Link e suggerimenti utili (forse):
• Outros Cadernos de Saramago, blog personale in portoghese di José Saramago (1922-2010) che l’autore nel tempo ha adoperato come un luogo personale di riflessione e pensiero, anche su argomenti di attualità (cfr. l’articolo su “La cosa Berlusconi”: https://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/06/08/la-cosa-berlusconi/).
È possibile sia accedere alla versione originale in lingua (http://caderno.josesaramago.org/) che alla traduzione autorizzata del blog a cura di Massimo Lafronza (https://quadernodisaramago.wordpress.com/).
• Articolo sull’opera di traduzione di Lafronza e sulla sua esperienza, a cura di Nicola Signorile per il Corriere del Mezzogiorno: http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/arte_e_cultura/2009/3-aprile-2009/lafronza-uomo-che-traduce-blog-saramago-per-me-servizio-sociale-1501148380181.shtml
• Musica come sottofondo durante la lettura: album Trance Frendz, del 2016, contenente sette brani strumentali scaturiti dalla riuscita collaborazione fra i musicisti e compositori Nils Frahm, tedesco, e Ólafur Arnalds, islandese. Le tracce sono frutto di una lunga serata all’insegna dell’improvvisazione, e i titoli scritti come se fossero orari rappresentano proprio la genesi dell’album, che vediamo nascere alle ore 20:17 e concludersi, con l’ultimo brano, alle 03:06.