Le Argonautiche, o l’inadeguatezza dell’essere umano
È il III secolo avanti Cristo, e un poeta nato ad Alessandria d’Egitto si appresta a comporre un poema destinato a far discutere ancora ai giorni nostri. Le Argonautiche di Apollonio Rodio sono un poema epico che, prendendo spunto da una serie di miti tradizionali, racconta delle avventure di Giasone e degli altri eroi salpati a bordo della nave Argo alla ricerca del vello d’oro, la pelle di un mitico ariete dorato, nascosto nella Colchide e custodito da un drago. La narrazione copre un arco di spazio e di tempo enorme, dalla partenza della nave da Iolco, nella Grecia orientale, fino alla conquista del vello, sulle sponde più ad est del Mar Nero, coprendo infine il viaggio di ritorno degli eroi, costretti a navigare all’interno del continente europeo, e a passare per le sponde dell’Italia adriatica e del nord Africa prima di poter giungere nuovamente a casa.
Il poema di Apollonio, però, va ben oltre il racconto dei viaggi e delle gesta degli eroi; la stessa definizione di “eroi” non calza alla perfezione ai personaggi che sono messi in scena da Apollonio: per tutto l’arco della narrazione il poeta sembra suggerirci che questi non siano in grado, con le loro sole forze, di portare a termine l’impresa, e anzi a più riprese appaiono a questo scopo quantomai inadeguati.
Tra gli argonauti il più potente è senza dubbio Eracle che, sospeso momentaneamente l’adempimento delle sue dodici fatiche, decide di unirsi alla spedizione. Tutti lo eleggerebbero all’unanimità a capo della spedizione, ma Eracle declina e indica al suo posto Giasone. Il confronto tra i due personaggi è cruciale per la lettura dell’opera: da un lato Eracle si confermerà a più riprese il migliore dei suoi: ai remi, da solo continua a sospingere la nave tra i compagni esausti; da solo, nella terra del re Cizico, sconfiggerà i Giganti nati dalla terra. Anche dopo che ha abbandonato la spedizione, è solo grazie a lui (se pure involontariamente) che gli argonauti riescono a sopravvivere alla siccità nel deserto. Di contro, Giasone si trova a più riprese in balìa degli eventi, più volte non sa come affrontare i pericoli che si trovano di fronte gli argonauti, e più volte si trova sul punto di rinunciare. L’unico avversario che nel poema sarà da lui sconfitto e ucciso con le proprie forze è in realtà un amico ed alleato, non riconosciuto per via delle tenebre; gli altri nemici li potrà sconfiggere solo con la magia e con l’inganno. Il lettore moderno come l’antico non può che leggere in filigrana una più problematica riflessione sull’essere umano, sulla sua fragilità e la sua inadeguatezza, la sua incapacità di compiere imprese più grandi di lui. Quella di Giasone non è però l’incapacità di uno sciocco, è l’incapacità tormentata e consapevole di un uomo schiacciato dalla difficoltà dell’impresa e dalle responsabilità che gravano sulle sue spalle:
Tifi, perché consolare / con questi discorsi il mio affanno? Ho sbagliato, / ho commesso un errore sciagurato e senza rimedio. / Avrei dovuto sottrarmi al comando di Pelia / e rifiutare subito il viaggio, anche a costo / di morire, anche a costo di essere orribilmente sbranato. / Ora soccombo a un’angoscia suprema, a intollerabili / affanni, e odio navigare le gelide / strade del mare, ma anche toccare la terra, / perché dappertutto vi sono uomini ostili. / Sempre, alla fine del giorno, veglio notti di gemiti, / da quando per causa mia vi siete raccolti all’inizio, / meditando sopra ogni cosa. E facilmente tu parli, / perché devi darti pensiero solo della tua vita; / io nemmeno un momento temo per me, ma per l’uno / o l’altro di voi, per te e per gli altri compagni, / se non riuscirò a riportarvi incolumi in Grecia (II 621-37)
Questa stessa impresa, nonostante il favore degli dei, è compiuta tra infiniti dubbi e ripensamenti, e con l’aiuto di una donna, Medea. Occorrerà spendere qui alcune parole sulla figura di Medea, la figlia del re Eeta che, innamorata di Giasone, arriverà ad andare contro la sua stessa famiglia e ad uccidere il suo stesso fratello per permettere all’amato di compiere la sua missione. La centralità del sentimento di Medea nell’opera è tale che il poeta, prima di procedere nella narrazione, invoca appositamente l’aiuto di Erato, la musa della poesia d’amore. È solo grazie alle sue magie e ai suoi filtri se Giasone sarà capace di recuperare il vello d’oro, eppure questa passione sarà tanto vantaggiosa per gli argonauti quanto distruttiva per Medea, che da Giasone è vista solo come un mezzo per raggiungere il suo agognato scopo:
Funesto amore, grande sventura, abominio degli uomini: / da te nascono le contese mortali, i gemiti ed i travagli, / e ancora si agitano infiniti dolori (IV 445-7)
È evidente allora che Apollonio non si limita a rielaborare acriticamente il mito, lo problematizza e lo attualizza, facendo di Medea una figura archetipica dell’essere umano che perde il senno, agisce in maniera inconsulta e infine soffre per le conseguenze delle sue azioni, accecato dall’amore. Il poeta, però, non si limita a questo e più avanti spingerà esplicitamente la riflessione su un più ampio discorso esistenziale:
Noi stirpe infelice degli uomini non possiamo entrare / nella gioia con piede sicuro; sempre l’amato dolore / s’insinua in mezzo ai momenti del nostro piacere (IV 1165-7)
Così il viaggio di ritorno degli argonauti, che si svolge tra difficoltà che sembrano insormontabili e che sostituiscono al (breve) entusiasmo per la conquista del vello la disperazione per un ritorno che sembra impossibile, assurge quasi a emblema della condizione umana:
Neppure sapevano / se navigavano sopra le acque o nel regno dei morti / ed affidavano al mare il loro ritorno, / disperati, senza capire dove li stava portando (IV 1698-1701)
Naturalmente la chiave di lettura qui proposta non è che la più superficiale per approcciarsi a un’opera che, comunque, a più di duemila anni dalla sua composizione resta interessantissima e si presta ad essere attualizzata (opportunamente, evitando forzature estreme), commentata e soprattutto letta.