Daniele Lisi
pubblicato 6 anni fa in Letteratura

Per una liturgia della poesia

Brevi riflessioni su Resteranno i canti di Franco Arminio

Per una liturgia della poesia

Quando una mia amica mi raccontò della paesologia, con la mente tornai tempestivamente al candore delle parole di Anguilla, il protagonista della Luna e i falò: «un paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene via. Un paese», precisa il protagonista, «vuol dire non essere soli sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo» (C. PAVESE, La luna e i falò, Roma, Newton, 2010 pp. 9-10).

Accanto alla paesologia, non è da meno l’impegno poetico di Franco Arminio. Il suo ultimissimo lavoro letterario, edito dai tipi di Bompiani, risale a circa tre mesi fa: Resteranno i canti, una raccolta di versi che, a primo impatto, descriverei come permeata di un eterogeneo poetare: poesie, consigli, aforismi, biglietti fugaci, cartoline. È tutto questo Resteranno i canti. Ma non solo. Perché la multiforme scrittura di Arminio si nutre anche di barlumi epigrammatici, un po’ alla Sandro Penna e, perché no, un po’ alla Epicuro – quello degli Scritti morali, delle Sentenze e delle Massime capitali, per intenderci. È una scrittura dettata da un io lirico, che, seppur d’atrabiliare indole, è privo, rimanendo a Epicuro, del lathe biosas e della corona d’alloro. Si tratta, vale a dire, di un io lirico contaminato dalla realtà quotidiana e sempre pronto a vivere un’esperienza panica – antidannunziana, giova sottolinearlo – cogli incantevoli paesaggi irpini (si pensi alla copertina dell’opera: una sezione di un tronco d’albero, simile a un’impronta del pollice), tale da inanellare sublimi convergenze tra l’umano e l’inumano.
L’ulteriore glutine dei versi di Arminio dimora, a mio avviso, nell’uso, cadenzato al punto giusto, del correlativo oggettivo. Analogamente alla montaliana muraglia con cocci aguzzi di bottiglia, l’io lirico dell’autore attinge a elementi religiosi, agli oggetti di casa, alle stagioni, ai mesi dell’anno e a una serie di fotogrammi generazionali, per tracciare, anche solo fugacemente, i contorni di ciò che è impalpabile e che solo la parola poetica rende palpabile. Non a caso, il correlativo oggettivo è lo strumento verbale più efficace per centrare l’essenza della paesologia – altro nodo tematico della raccolta. Avevo volutamente lasciato in sospeso la frase del romanzo di Pavese. È legittimo che il lettore non avvezzo ad Arminio chieda delucidazioni sulla paesologia. Non esiste, a mio avviso, spiegazione migliore della poesia Paesologia. Dimora lì, nella magia di quei versi, il significato della paesologia. Leggiamone insieme una parte:

Nascere e crescere dentro un’osteria.
Le partite a pallone
nella curva di via Mancini,
le pause quando gli asini
tornavano dalla campagna.
La mia paura della fine
e la fine che si sente nei paesi:
un tempo penultimo,
la perenne vigilia del crollo.
Parlare con le ragazze
che non si facevano baciare
nel pulmann che andava a Lacedonia.
[…]
La battaglia per impedire
la discarica sul Formicoso.
Quelli che dicevano:
oggi viene il senatore da Roma.
Il fastidio degli abiti nuovi
nei giorni di festa.
[…]
I piaceri della paesologia:
stendersi al sole ad Accadia.
[…]
Gianni Celati che legge Leopardi
a bassa voce al centro anziani
di Bisaccia.

Per concludere, ritengo doveroso sottolineare che la poesia di Arminio non è una poesia disimpegnata, anzi. Coi suoi versi egli ambisce a un’educazione alla poesia. L’autore è stato abile e lungimirante anche in questo. Se il titolo della settima e ultima sezione è esemplificativo: Appunti sullo scrivere in versi, ancor più eloquente risulta quello del suo componimento incipitario: Piccolo decalogo trascurabile. È eloquente, perché suona quasi come una provocazione. Non si tratta di un decalogo trascurabile, o meglio, il lettore, anche quello più lontano dalla poesia, anche quello che per la prima volta si accingerà alla lettura della poesia non potrà farne a meno, di questo componimento. Sembra come se Arminio ci dica con una voce: «Siete liberi di leggerlo oppure di non leggerlo, sta a voi» e con l’altra: «non fatevi ingannare! Guardate che la poesia è alla portata di tutti, non esistono talenti eletti, tutti possiamo calarci nelle vesti di poeti!». Ma non basta. Arminio non si limita a dire solo questo, il suo è un messaggio chiaro: servirebbe proprio una liturgia della poesia, una liturgia tutta da condividere, non da celare nelle torri d’avorio o nella voce della mente. «Nell’era democratica», urlava Ferretti ai tempi dei CCCP, «tifiamo rivolta». Più che tifare rivolta, tifiamo poesia. Nel postmoderno tifiamo poesia:

Amare i versi tiene lontane le malattie: diffidiamo delle altre medicine, affidiamoci all’ospedale della lingua.
Con la poesia non bisogna essere egoisti, oltre che leggerla per sé bisogna anche leggerla agli altri. Anzi, più ci tocca e più nasce spontaneo il desiderio di condividerla. La poesia è un farmaco, ma è anche una malattia, contagiosa e capace di rivelarci noi stessi, come tutte le esperienze più estreme.
È bello leggere poesie in famiglia, farne un’abitudine prima del pranzo e della cena. Oggi si celebra tanto il cibo, ma è raro che lo si preceda con un piccolo antipasto per lo spirito. E non pensiamo alla poesia come a una cosa per pochi. Leggiamo le poesie insieme a un barista, a un benzinaio, a un notaio, offriamole a chi ci ama, a chi ha avuto un dolore (Ivi, p. 153-4).

(Devo questo scritto a Michela, perché, quando gli amici ti instradano nella scoperta dei diamanti, è sempre bello ed edificante).