I Canti di Castelvecchio:
Leopardi e Dante come orientamenti di lettura
Coevi ad Alcyone e al Fu Mattia Pascal e posteriori a Myricae, ai Poemetti e al Fanciullino, i Canti di Castelvecchio vennero pubblicati quando Pascoli aveva quarantotto anni e una cattedra all’università di Pisa. L’insegnamento, così come le traumatiche esperienze della sua infanzia, contaminò i suoi versi, in particolare la raccolta in questione. Al momento della sua composizione, l’autore aveva commentato due canti leopardiani, Il sabato del villaggio e La ginestra. Il titolo, Canti, è già una primissima spia del legame col poeta recanatese. Non da meno fu Dante: basti pensare che nell’officina pascoliana il «ghibellin fuggiasco» godeva di un tavolo a sé, così come la letteratura italiana e quella classica.
Alla luce di questo, la lettura dei Canti pascoliani può, a mio avviso, trovare in Leopardi e Dante due efficaci orientamenti di lettura. Entrambi assurgono poli macrotematici d’indagine, da cui si articola – e si può costruire – il dedalico labirinto microtematico.
Il primo glutine tra Pascoli e Leopardi risiede nel componimento Il bolide. Si tratta di un componimento ricco di suggestioni estatico-visive, evocate dalla morte, cicatrice più visibile del suo io lirico:
«E la terra sentii nell’Universo. / Sentii, fremendo, ch’è del cielo anch’ella. / E mi vidi quaggiù piccolo e perso // errare, tra le stelle, in una stella».
Siamo di fronte a versi di matrice romantica e come non rammentare L’infinito o le «Vaghe stelle dell’Orsa» delle Ricordanze: l’uomo piccolo e finito di fronte all’immensità dell’universo.
Il legame tra Pascoli e Leopardi viene via via delineandosi, in secondo luogo, attraverso la lettura del componimento La mia sera. La mia sera non è nient’altro che una viva emulazione della Quiete dopo la tempesta. Il parallelismo tra i due canti è fecondo, se si confrontano versi come «Il giorno fu pieno di lampi; / ma ora verranno le stelle, / le tacite stelle. Nei campi / c’è un breve gre gre di ranelle» a quelli come «Passata è la tempesta / odo augelli far festa». Scenari da quiete ritrovata insomma. Quella quiete che solo Castelvecchio di Barga, rustico locus amoenus, può garantire all’autore. Giuseppe Nava, uno dei vertici della critica pascoliana, denota in questo canto anche un legame con la diciottesima Operetta morale, Il cantico del gallo silvestre, almeno per quel che riguarda lo schema della sera intesa come «vecchiaia» e della mattina come «giovinezza» (Cfr. G. LEOPARDI, Il cantico del gallo silvestre, in ID., Operette morali, a cura di Laura Melosi, Milano, BUR, 2008, 2017⁷, p. 470).
Eccone un’immagine viva col don don delle campane di mezzogiorno e il rapido approssimarsi della sera:
«Don… Don… E mi dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi! Sussurrano, / Dormi! Bisbigliano, Dormi! / là voci di tenebra azzurra… / Mi sembrano canti di culla /, che fanno ch’io torni com’era… / sentivo mia madre… / poi nulla… / sul far della sera».
La nebbia e la siepe sono due elementi poetici che maggiormente legano Pascoli a Leopardi. Se nell’Infinito leopardiano la siepe è il ponte tra la realtà e la fuga da essa, in Pascoli è un possibile scudo che vanifica le minacce dei fantasmi del passato. La prova di quanto detto giace nello scenario della poesia Nebbia, anch’essa ausilio difensivo assieme alla siepe:
«Nascondi le cose lontane, / tu nebbia impalpabile e scialba, / tu fumo che ancora rampolli /, su l’alba […] // Nascondi le cose lontane, / nascondimi quello ch’è morto! / Ch’io veda soltanto la siepe dell’orto»
e nella mesta immagine del componimento Fanciullo mendico:
«e chiamava sua madre, che sorta / pareva da nebbie lontane, / a vederlo; poi ch’erano, morta / lei, morta! ma lui senza pane».
Arriviamo così al quarto e ultimo punto di contatto tra Pascoli e Leopardi, attraverso la più lampante e geniale riscrittura leopardiana: Il ciocco, un componimento in cui magistralmente la similitudine tra l’uomo e la formica e le fantasticherie cosmogoniche trovano una perfetta convergenza e in cui il basso e l’alto convivono. Alla mimesi realistica del primo canto, infatti, si lega la notturna fuga dalla realtà dell’io lirico del secondo. È qui che siamo in prossimità del legame Pascoli-Dante.
La convergenza tra l’alto e il basso in Pascoli trova un ulteriore esemplificazione nel continuum esistente, secondo il pensiero dell’autore, tra il folclore popolare (il basso) – altro grande tema della raccolta, si pensi a componimenti come La tovaglia e La squilletta di Caprona – e il mito classico (l’alto). La canzone La cavalla storna è quella che al meglio lo evidenzia. Siamo di fronte a una canzone dagli scenari luttuosi, nella quale una cavalla torna col corpo morto del padre del piccolo Giovanni di fronte agli occhi di sua madre. La cavalla, dopo aver sentito dalla madre il nome del presunto aguzzino di suo marito, nitrisce al pari dei cavalli nell’Iliade alla morte di Patroclo e al pari della profezia di morte che Xanto, il cavallo di Achille, dà al suo cavaliere. Come nella Commedia l’orrido non è ancillare al sublime, così in Pascoli credenza popolare e Iliade sono due facce della stessa medaglia.
Il legame Pascoli-Dante si fa nitido attraverso un’attenta indagine filologica. L’autore romagnolo, virtuoso della metrica, attinse fortemente all’enorme contenitore lessicale della Commedia. All’interno di questo scritto, senza ambizione di esaustività, esemplificherò quanto sostenuto di con tre degli innumerevoli dantismi presenti nei Canti di Castelvecchio:
a) «Piè leggero». Siamo nel XXI˚ dell’Inferno, nella tenebrosa bolgia dei barattieri, in cui Dante, anziché sdegnarsi con essi, mostra a Virgilio una paura enorme verso i crudeli diavoli dal «piè leggero» (Ivi, 33), ossia verso quei diavoli che rincorrono rapidamente i dannati per seviziarli.
In Pascoli «piè leggero» è riutilizzato nel componimento Ov’è?, componimento col quale l’autore romagnolo evoca l’infanzia e il distacco dalla vita attraverso la figura di un neonato che, caduto dal cielo, non lascia traccia di sé. Tutti lo cercano a Castelvecchio, anche i ragazzi coi loro «piè leggeri», ma con scarso successo.
b) Metafora canina. Sempre nel XXI dell’Inferno, quando Dante deve descrivere i diavoli che torturano Bonturo Dati (vv. 45-6: «e mai non fu mastino sciolto / con tanta fretta a seguitar lo furo») e l’avvio del colloquio tra Virgilio e Malacoda, il tiranno dei diavoli, si appella ai diavoli come se fossero cani rabbiosi usciti dalle loro cucce (vv. 67-8: «Con quel furore e con quella tempesta / ch’escono i cani a dosso al poverello»).
In Pascoli la metafora canina è usata in uno scenario completamente diverso ed è legata a quello del componimento I due girovaghi, in cui uno stacciaio e uno spazzacamino passeggiano per Castelvecchio, offrendo, a chi ne avesse bisogno, il loro lavoro e «urlano come cani in abbandono / fuori dall’uscio».
c) Bifolco. In Dante questo termine viene usato nel diciottesimo verso del secondo canto del Paradiso nella similitudine argonautica: come gli argonauti videro senza stupirsi Giasone, il loro condottiero, calarsi nella veste desueta di bifolco, così i lettori della cantica erano invitato a non meravigliarsi nel vedere Dante nelle vesti di teologo (Cfr. Pd, II, 16-8).
In Pascoli questo termine torna nel componimento La canzone della granata, in cui, quasi scontata la presenza del bifolco, viene fatta una lode al grano, alle distese di grano, versatili nel loro impiego domestico: utili sia per le scope che per gli uccelli e per le galline.