Marco Miglionico
pubblicato 10 anni fa in Cinema e serie tv \ Letteratura

Nymphomaniac

L’eccedenza del desiderio femminile agli occhi della logica maschile

Nymphomaniac

Se il cinema è l’arte più perversa perché insegna come desiderare (Slavoj Zizek, “A pervert’s guide to cinema”), il regista danese mostra come il desiderio femminile sia altro che l’inquadramento maschile. Lars von Trier confessa a sé stesso di non saperlo definire. Né rintraccia un desiderio che sia assolutamente maschile o femminile. Il desiderio in Nymphomaniac non è sessualizzato, perché non passa al vaglio della logica e dei giudizi.

 

Non è sesso, ma non è pornografia, perché il porno è il manque del desiderio, come tuonava Carmelo Bene. Il film resta al di qua del limite che inscrive il desiderio nell’accesa voglia di Eros.
C’è amore in un’opera che parla di sesso? Lo spazio riservato ad amore è davvero importante. Eros sostanzia il sesso, spiega l’amica all’inizio del film. La ninfomania della protagonista, che è la caratterizzazione di Charlotte Gainsbourg sin dai primi istanti, non sacrifica Eros sull’altare del desiderio. E la sua malattia, da lei vissuta come elemento positivo, non è insaziabilità. Spiega bene che non fosse insoddisfatta da tutti gli uomini che incontrava.
Non è pornografia. Non è amore. Non è malattia. Non è mancanza. Che cos’è il desiderio? Continua ad agitarsi il pendolo infernale senza una risposta. Lars Von Trier compie allora una scelta stilistica fondamentale: concentrarsi sulla modalità di presentazione del desiderio, più che sulla sua spiegazione. Nel passaggio dal Volume I al II, le due parti del lungometraggio, il regista va dalla teoria alla carne. La seconda parte è più dolorosa, umiliante, capace di ferire.

 

Che cosa vuole una donna? È il punto cieco della riflessione freudiana e il punto sul quale Lars von Trier ha costruito il film, che si sviluppa per otto capitoli. Tuttavia alla fine di ciascuno non si è completamente convinti che egli vi sia riuscito. E’ una soluzione di comodo ritenere che il film sia pesante e, quindi, filosofico. Tuttavia è filosofica l’impostazione dialettica tra i due protagonisti, che di fatto è la vera regia delle sequenze analettiche. Gli scontri di opinione tra Lei e Lui strutturano il discorso in maniera oppositiva e tentano di infilarsi nella fitta trama del desiderio. Joe (lei) e Seligman (lui) inaugurano un discorso, che -sul perno della storia della ninfomania- viene elaborato attraverso numerosissimi riferimenti culturali. Ad esempio, quando Seligman conferma di essere neutro di fronte al discorso di lei (e la sua sospensione di giudizio è funzionale alla dialettica dei due e al risalto che alla fine dovrà essere posto su di lei), neutro perché nato asessuato, spiega che l’unica ebbrezza gli sia provenuta in passato dalle letture di: Decameron, The Canterbury Tales e Le mille e una notte, ovvero la “trilogia della vita” di Pasolini. O, ancora, si tengano presenti i riferimenti alla ninfomania di Messalina e alla Meretrice di Babilonia, seppure evocata nel racconto di Seligman con una soluzione formale piuttosto fallace. Più coerente il riferimento, invece, al paradosso zenoniano di Achille e la tartaruga, che egli ripropone come allotropo filosofico di un orgasmo inseguito e mai raggiunto.
Il vero epilogo è l’incipit: non può esserci una definizione. Non esiste definizione del desiderio femminile. Non si può giudicare che cosa sia giusto o sbagliato. Trier nega l’etica, la religione, il manicheismo. Non c’è Oriente né Occidente (alludo ad uno dei capitoli della storia). L’unico modo di parlare del desiderio femminile è rappresentarlo, senza tuttavia scadere in un elogio della forma, un esercizio di oratoria epidittica.