Madonna col cappotto di pelliccia
di Sabahattin Ali
Arriva oggi nelle librerie, pubblicato da Fazi editore, Madonna col cappotto di pelliccia, romanzo degli anni Quaranta dello scrittore turco Sabahattin Ali.
Poeta, maestro e giornalista, in Turchia Sabahattin Ali è considerato uno dei più grandi autori del Novecento, fortemente amato anche a causa del suo fervente impegno politico, che gli costò la prigione e, secondo alcuni, anche la vita.
Questo romanzo, che gli amici dell’autore criticavano perché troppo romantico e quasi deleterio per la sua immagine di oppositore di Mustafa Kemal Atatürk, ha raggiunto in patria numeri di vendita altissimi, superando ampiamente il milione di copie.
Nella traduzione di Barbara La Rosa Salim possiamo quindi conoscere la storia di Raif Effendi e Maria Puder: sullo sfondo di una Berlino degli anni Venti i due giovani si incontrano casualmente e stringono, guidati dal destino, un fortissimo legame sentimentale.
Raif è un ragazzo turco, solitario sognatore, con una cultura europea: afflitto da una sorta di bovarismo, non è abituato a palesare i suoi bisogni né a esprimere i suoi sentimenti.
La svalutazione della moneta, a seguito della sconfitta nella Grande Guerra, rende la Germania un paese allettante per gli stranieri; Raif lascia quindi, su invito paterno, gli abiti da timido studente dell’Accademia di Belle Arti di Istanbul, per cercare lavoro in un’azienda di sapone tedesca.
Ancora più solo a causa dell’ostacolo della lingua, Raif trova conforto nei libri (in particolare nei romanzi russi tanto amati dallo stesso Sabahattin Ali, che fu ritrovato con la sua copia dell’Eugenio Onegin) vive in una modesta pensione e cerca di comprimersi per occupare meno spazio possibile, fisicamente e spiritualmente.
Di tanto in tanto temevo che la tristezza che mi attanagliava, quel male di vivere, non fosse altro che il sintomo di un qualche malessere spirituale. Quando trascorrevo due ore con un libro e trovavo che fosse più piacevole e più importante di alcuni anni di vita vissuta, riflettevo sull’inquietante vanità della vita e sprofondavo nella disperazione.
Raif legge, talvolta gira per la città senza una meta o visita le mostre d’arte; a un’esposizione di pittori emergenti viene profondamente scosso alla vista dell’Autoritratto di Maria Puder: solitamente pacato e misurato, non riesce a spiegarsi questa esplosione di sensazioni provata di fronte a quel quadro raffigurante una donna con il cappotto di pelliccia.
E nonostante la consapevolezza che quel viso mi fosse del tutto sconosciuto, non potevo fare a meno di sentire che l’avevo già incontrata altre volte prima di allora. Quel volto pallido, le sopracciglia scure, gli occhi neri, i capelli castano scuro e, soprattutto, quell’espressione che univa innocenza e determinazione, una personalità forte e un’infinita malinconia, non mi erano certo estranei. Conoscevo quella donna da quando avevo aperto il mio primo libro all’età di sette anni, da quando, a cinque anni, avevo cominciato a fantasticare. C’erano in lei reminiscenze della Nihal di Halit Ziya, della Mehcure di Vecihi Bey, dell’amata del Cavalier Buridan, ma anche della Cleopatra dei miei libri di storia e di Amine Hatun, la madre di Maometto, che mi ero immaginato ascoltando il mevlit, il canto che celebra la nascita del profeta.
Dostoevskij riconosceva l’aspetto salvifico della bellezza per il mondo e aveva bisogno di vedere almeno una volta l’anno la Madonna Sistina: ugualmente Raif ritorna più volte di fronte al quadro, cambiato, sconvolto e salvato proprio dalla bellezza di quella figura. Finché, per puro caso, non si trova di fronte al soggetto della sua contemplazione, vivo e reale.
Se da un lato c’è Raif, che in questo incontro si ritrova a esprimere ogni cosa mai repressa e taciuta, finalmente in comunione con qualcuno, dall’altro lato si trova Maria, convinta da sempre della fugacità dei rapporti, sfiduciata da ogni tipo di relazione, rassegnata alla sostanziale solitudine della vita. I due si conoscono, diventano amici, si innamorano, in un rapporto che ricorda fortemente quello descritto proprio da Dostoevskij nel suo lungo, bellissimo racconto del 1848, Le notti bianche, con Raif nel ruolo del sognatore e Maria Puder che incarna Nasten’ka.
Un desiderio incontenibile mi colse: volevo balzare in piedi, gettarle le braccia al collo e baciarle le labbra tra le lacrime. Non ricordavo di essere stato mai così felice in tutta la mia vita, non mi ero mai sentito tanto appagato. Come poteva una persona, quasi senza fare niente, arrecare una tale felicità a un’altra? Solo con un sorriso amichevole, pulito… E io in quel momento non desideravo altro. Ero l’uomo più ricco del mondo. Mentre i miei occhi la seguivano in giro per la stanza, mormoravo: “Ti ringrazio… ti ringrazio!”
Raif e Maria, però, sono costretti per una serie di motivi a separarsi. Lui torna in Turchia, si sposa, mette su una famiglia dalla quale è quasi disprezzato, lavora come traduttore in modo anonimo e solitario, sempre attanagliato dai rimpianti e dal “e se…” . Solamente dopo molti anni, grazie a un altro incontro casuale, riesce a capire quello che gli era sfuggito per tutta la vita.
Una nostalgia viva mi colse come se mi fossi separato da lei il giorno prima. Il dolore per la perdita di qualcosa di prezioso – sia essa una ricchezza materiale o tutta la felicità del mondo – con il tempo si dimentica. Sono le occasioni mancate che non riusciamo a toglierci dalla mente e, ogni volta che ci ripensiamo, proviamo una fitta al cuore. Forse ciò che ci tormenta è il pensiero che le cose sarebbero potute andare diversamente.
La storia, che ha i contorni di una favola, viene raccontata attraverso un taccuino che Raif lascia a un suo collega all’inizio del libro e la narrazione, lineare e romantica, ci ricorda come certi incontri, certi attimi di beatitudine e felicità (per riprendere ancora Dostoevskij), siano in grado di colmare tutta la vita di una persona.
L’immagine in evidenza proviene da: https://fazieditore.it/catalogo-libri/madonna-col-cappotto-pelliccia/