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pubblicato 6 anni fa in Interviste

Intervista a Francesco D’Isa

Intervista a Francesco D’Isa

Abbiamo dialogato con Francesco D’Isa, giovane artista e filosofo fiorentino, direttore dal 2015 della rivista L’Indiscreto e autore, tra i suoi vari lavori, del romanzo La stanza di Therese (Tunué, 2017).

Filosofo, scrittore, artista, blogger. In che misura ti occupi di ognuna di queste attività?

Dal punto di vista pratico me ne occupo in base alla retribuzione, quindi assieme (e prima) di quelle che hai elencato dovrei mettere “grafico” e “docente (di grafica)”. Da un punto di vista meno venale, penso che tutte queste occupazioni siano una modalità della prima, ovvero dei metodi per indagare e accogliere la realtà – in questo caso l’impegno è costante.

Quali sono i tre filosofi che secondo te andrebbero conosciuti e studiati sempre?

È difficile conoscerne solo tre, una volta innescate le domande non c’è via di ritorno e si è costretti a proseguire l’indagine. Al contrario, chi non ama la filosofia si annoia subito dopo il primo. In occidente si inizia sempre, e a giusta ragione, da Platone (Whitehead disse che tutta la filosofia occidentale è una serie di note a margine su Platone); ma così come non possiamo ignorare i capisaldi della nostra tradizione non possiamo non leggere Laozi, le Upanisad o Nāgārjuna. Per quel che mi riguarda i tre filosofi che sento più vicini sono Nāgārjuna, Wittgenstein e Nietzsche.

Recentemente è stata pubblicata sull’Indiscreto l’inchiesta condotta da Vanni Santoni sullo stato della critica e del romanzo. La quarta domanda ragionava sulla lista dei migliori libri del decennio passato, stilata da una serie di giovani critici italiani, e mostrava l’egemonia del romanzo sulle altre forme. Focalizzandoci solamente su questo genere, quali sono secondo te i migliori romanzi italiani dell’ultimo decennio?

È complesso dare una risposta onesta a questa domanda, perché qualunque selezione proponga mi si potrebbe imputare di aver fatto delle scelte viziate dalle conoscenze personali. Dunque lo farò esplicitamente: questa scelta è viziata dagli affetti, ma anche genuina, perché credo che quelli che seguono siano dei bellissimi romanzi. In ordine alfabetico: L’amica geniale di Elena Ferrante, Cometa di Gregorio Magini, Tutti gli altri di Francesca Matteoni, Ricrescite di Sergio Nelli, La stanza profonda di Vanni Santoni, Bruciare tutto di Walter Siti, Il giorno della nutria di Andrea Zandomeneghi.

La stanza di Therese (Tunué, 2017) è un bellissimo libro che unisce parole e immagini. Molto banalmente ti chiedo: “come è nata l’idea di questa narrazione mista, tutta al femminile?” Quali sono i tuoi modelli per il disegno e quali per la scrittura?

Intanto grazie. Ho sempre preferito lavorare costruendo ibridi che mescolano il disegno, la filosofia e la narrativa. Il mio lavoro prosegue essenzialmente per mezzo di paradossi; degli eventi che palesano l’inconsistenza della realtà attraverso il cedimento di un linguaggio abituale. Abitare l’ineffabile è però impossibile, dunque una volta caduti da un linguaggio veniamo accolti nella rete di un altro – da qui la commistione. Non è certo un’idea originale; già nel 1499 Aldo Manunzio pubblica un bellissimo libro in cui parola e immagine sono inseparabili: l’Hypnerotomachia Poliphili. È il primo di una lunga serie di esperimenti in cui va incluso tutto il protofumetto e il fumetto. Per segnalare qualche opera recente che ha segnato il mio stile, citerei Una settimana di bontà di Max Ernst e la ricerca matematico-filosofica mista a immagini di No! di Imre Toth. Quanto al femminile, per un uomo una donna è la più simile delle differenze. Una voce femminile, per me che sono un uomo, è forse la più adatta per osservare il mondo con il giusto equilibrio di passione e distacco.

Nel lontano duemilatredici hai iniziato a scrivere per il Post le recensioni brevissime di libri difficili, ripubblicate poi sul tuo blog, L’Indiscreto. Puoi farne una sulla Stanza di Therese e sull’ultimo libro difficile che hai letto?

La Stanza di Therese, di Francesco D’Isa

Un libro di filosofia travestito da romanzo per fregare chi non legge filosofia ed evitare le critiche pedanti dei filosofi.

Trama: Una tizia si chiude in una camera di hotel e si domanda se dio esiste.

Voto: …

(5/5! ndr.)

Taccuini, di Albert Camus

Camus vi umilia perché anche nei suoi peggiori appunti è più bravo e profondo di voi nei vostri migliori romanzi.

Trama: Albert prende appunti.

Voto: 5/5

Therese scrive di non aver paura della morte, ma del dolore, e di vivere il suo ritiro in solitudine non come una fuga, ma come un metodo conoscitivo. In che misura secondo te si può mettere in relazione con Kafka, che scrive: “Di fronte alle sofferenze del mondo tu puoi tirarti indietro, sì, questo è qualcosa che sei libero di fare e che si accorda con la tua natura, ma precisamente questo tirarsi indietro è l’unica sofferenza che forse potresti evitare”?

Come Therese, credo che esista solo un male, il dolore, e la morte non lo è. Continuo a leggere la citazione di Kafka senza riuscire a coglierla; la mia lettura (peraltro in accordo con la mia esperienza) è che al dolore non si scappa, ma che si può sfuggire al desiderio di fuggire il dolore. È un’idea in accordo con una pratica meditativa buddista di cui ho colto qualche frutto, l’osservazione equanime del proprio vissuto, positivo e negativo. Con la pratica, un fastidio o un dolore fisico si palesa come un neutro prurito dei nervi, mentre un’emozione si riduce a una vampata nel petto. Ogni sensazione non è più vissuta ma contemplata, e grazie alla contemplazione si dissotterra la neutra e abbacinante bellezza di qualunque cosa.

In una lettera Therese si chiede: “Ma qual è la mia forma? Trovare chi sono non è facile, tanto che in risposta ho accettato spesso quel che gli altri dicevano di me, in un mutuo contratto di schiavitù. Diciamo che sono questo cerchio.” La sorella, dopo averla letta, postilla: “visto che ami i collage, ecco la tua forma”, disegnando accanto alla lettera un triangolo. Si può leggere il loro rapporto nell’ottica del desiderio triangolare di Girard, con Therese che si trova a desiderare per imitazione ciò che il mediatore, ovvero la sorella, illumina come desiderata – che sia un ragazzo, un buon voto, un vestito, l’approvazione degli altri – non (sol)tanto per ammirazione, quanto per invidia?

Senza dubbio moltissimi dei nostri desideri provengono da altri; la moda è un modello esemplare di questa forma di mutua schiavitù. È una tendenza così potente che anche quando è stupida o inutile è difficile ignorarla. La scomposizione dell’identità di Therese parte da qui, ma prosegue oltre, perché la protagonista scopre che da quando ha memoria, a eccezione della prima infanzia, si sente pressata verso una meta non sua, come se a guidare tutti i suoi gesti fosse una forza che non ha scelto e su cui non ha potere. Col tempo individua il magnete alla base di ogni desiderio: proteggersi, mantenersi, accrescersi, riprodursi… tutto si affanna contro “il dolore della paura della morte”, come scrive Dostoevskij ne I Demoni. Alla ricerca del senso della vita sostituisce così un problema più complesso: la ricerca del senso del senso della vita. D’altra parte non ha avuto il lusso di stabilire le regole del gioco, le ha trovate e basta – come scrive Schopenhauer, “è certo che un uomo può fare ciò che vuole, ma non può volere ciò che vuole”. Non ci è concesso stabilire se sono giuste o sbagliate, belle o brutte, perché qualunque decisione si prenda in merito a queste norme non può che seguirle.

Secondo Bergson le cose esterne non si succedono nel tempo e la successione stessa del tempo registrata dalle lancette esiste “soltanto per uno spettatore cosciente che si ricordi il passato e giustapponga le due oscillazioni o i loro simboli in uno spazio ausiliario.” (Cito dal Saggio sui dati immediati della coscienza). Therese scrive: “Il tempo non esiste senza le identità e le identità senza le relazioni, è il mutare delle cose a costituirne l’essenza, e se tutto rimanesse congelato per la durata di un minuto, il minuto non trascorrerebbe.” È anche per questo che nessuna delle lettere di Therese è mai datata? Qual è invece il tuo rapporto con il tempo?

Sì, è per evidenziare la natura relazionale delle identità che nelle lettere non ci sono indicazioni temporali e tutti i nomi di luoghi e persone sono stati cancellati. Credo che ogni nome sia un nome proprio, perché ogni cosa è se stessa solo all’interno di una specifica rete di relazioni: nelle parole di Nāgārjuna, le cose sono prive di esistenza intrinseca.

Per quel che riguarda il tempo, sono d’accordo con Therese (e Aristotele) nel considerarlo tutt’uno col cambiamento. Lo dico con un esperimento: immagina un evento della durata di un secondo, come un battito di mani. Supponi ora che tra il tocco e il rilascio dei palmi trascorra un altro intervallo di tempo, in cui in tutto l’universo (o in tutti gli universi) non accade nulla. Non solo tu, la tua mente e le tue mani restate immobili, ma nulla si muove o cambia, né qui né in alcun luogo – non un capello, un pianeta o una divinità: una stasi assoluta. Poi tutto riprende, senza motivo come senza motivo si è fermato. Questo periodo di completa immobilità trascorre realmente? Se così fosse, potrebbe durare un secondo, un minuto, un giorno o un milione di anni, perché se in questo intervallo di tempo non accade nulla, non puoi stabilirne la durata: tra ogni istante si nasconde un tempo infinito. Il tempo dunque non esiste svincolato dalle relazioni tra le cose, perché in un universo privo di eventi perde qualunque valore. È il mutare delle cose a costituirne l’essenza e – come dice Therese – se rimane tutto congelato per la durata di un minuto, il minuto non trascorre. Quale che sia la misura di un istante, infatti, è tale solo in relazione a un cambiamento: il sorgere del sole, il moto di una lancetta, l’apparire di una ruga, la frequenza di risonanza di un atomo. L’unità minima di tempo coincide con il più piccolo mutamento e senza le differenze tra le cose, il tempo si dissolve.

A proposito di tempo… Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Abbiamo grandi progetti in cantiere con L’Indiscreto che mi impegneranno senz’altro molto. Quanto al mio lavoro personale, dopo La stanza di Therese non ho resistito alla tentazione di approfondire certe questioni e sto scrivendo un saggio di filosofia, sebbene in uno stile non accademico e con molti disegni. Sempre più difficile, ma (mi auguro) spiegato in modo facile.

Intervista a cura di Susanna Ralaima

Tutta la redazione del Culturificio lo ringrazia per la sua disponibilità.