Green book di Peter Farrelly
un viaggio per scoprire sé stessi
Chi è più “nero”? Un italoamericano che reagisce agli insulti con un pugno in pieno viso e divora enormi quantità di pollo fritto oppure un facoltoso uomo di colore, celebre musicista, che non condivide molte di quelle esperienze di vita che caratterizzavano la popolazione afroamericana negli anni ’60?
Sono questi due uomini dalla personalità e dagli stili di vita opposti i personaggi principali del vincitore agli Oscar come miglior film Green book, ispirato ad una storia vera e la cui sceneggiatura è stata co-scritta proprio dal figlio di uno dei protagonisti della vicenda reale.
Tony (Viggo Mortensen) è un italoamericano ciarliero, rissoso e sguaiato che parlando talvolta impasta inglese e dialetto siciliano, il quale dopo aver perso il suo impiego da buttafuori trova lavoro come autista per un importante pianista che si appresta a fare un tour nel profondo sud. La situazione non avrebbe nulla di particolare se non fosse che il musicista in questione, Don Shirley (Mahershala Ali, neovincitore dell’Oscar come miglior attore non protagonista), è un uomo di colore e nelle città in cui deve recarsi la popolazione è ancora ben lontana dal considerare gli afroamericani alla pari dei bianchi.
Per tale ragione i due devono affidarsi al Green Book, una guida per persone nere che indica loro i luoghi nei quali sono bene accetti.
Inizialmente nemmeno Tony è esente dal razzismo, lo dimostra una delle prime scene in cui getta nella pattumiera i due bicchieri dove avevano appena bevuto due operai di colore che erano stati a casa sua. Ma la paga molto sostanziosa che gli viene offerta lo convince ad accettare questo lavoro e vincere l’umiliazione di dover stare al servizio di un nero, in un mondo in cui una situazione del genere era a dir poco anticonvenzionale per il capovolgimento dei ruoli canonici che creava.
Inizia così questo viaggio on the road su una Cadillac verde acqua, a bordo della quale nascerà l’amicizia tra questi due personaggi agli antipodi, i quali impareranno a conoscersi l’un l’altro e a scoprire meglio anche se stessi.
Don Shirley infatti è un uomo colto, raffinato, pacato, forse anche troppo. Non corrisponde a ciò che la maggior parte della gente di allora si aspettava fosse un uomo di colore. Lui infatti è stato fortunato, ha potuto studiare e sviluppare il suo talento fino ad essere apprezzato nei salotti della borghesia bianca. Ciò però non lo ho reso immune da episodi di razzismo in quello stesso ambiente che lo elogia per le sue doti musicali, ma soprattutto lo ha allontanato dalla comunità nera e dalla sua stessa famiglia.
Non bisogna dimenticare d’altra parte che nell’America del 1962 gli episodi di intolleranza erano frequenti e la situazione non era di molto migliorata rispetto a vent’anni prima. A tal proposito si pensi che durante gli Oscar degli anni ‘40 Hattie McDaniel, l’interprete di Mami nel colossal Via col vento, la prima afroamericana vincitrice del prestigioso premio come miglior attrice non protagonista, non poté sedersi al fianco dei suoi colleghi del cast, ma venne relegata in fondo alla sala.
Lo stesso accadeva un ventennio dopo a Don Shirley, al quale veniva concesso di recarsi in luoghi prestigiosi ma soltanto come intrattenitore, una volta smessi i panni del musicista per la maggior parte del pubblico, che poco prima l’aveva applaudito, tornava ad essere un nero qualsiasi da tenere a debita distanza. Non gli era permesso di utilizzare la toilette principale, provare un abito prima di averlo acquistato, né recarsi in determinati ristoranti in cui la “tradizione” non consentiva a coloro che avevano una gradazione di pelle troppo scura di entrare in sala, se non con la divisa da cameriere. Soltanto in quel caso la sua presenza all’interno della struttura non avrebbe suscitato alcuna obiezione, dal momento che il problema stava nell’impossibilità di considerarlo un ospite al pari degli altri.
Ciò dimostra come in questo caso il razzismo non abbia nulla a che fare con l’educazione, il ceto sociale o il grado di istruzione, ma sia una questione superficiale, dovuta a sfumature cromatiche, e dunque qualcosa di ancora più assurdo, arbitrario e ingiusto.
Entrambi i protagonisti di questa storia si trovano a metà tra due mondi e si aiuteranno a vicenda in questo bilico. Tony infatti spesso non viene considerato un bianco al 100% a causa delle sue origini italiane, tant’è che in una scena un agente di polizia lo insulta definendolo “mezzo negro”.
Don Shirley, invece, disorienta la gente degli anni 60 perché la sua pelle color dell’ebano contrasta con il suo aspetto elegante e molto curato, oltre che con le sue maniere e il linguaggio signorile. Lo stesso Tony durante una lite affermerà:
Io sono più nero di te! Tu non sai un cazzo della tua gente, credimi, cosa mangiano, come parlano, come vivono, non sai neanche chi è little Richard!
La differenza importante tra i due è che se per Tony questa doppia identità non costituisce un problema, anzi è proprio in questa duplicità che si costruisce la sua personalità eccentrica, Don Shirley invece soffre molto per la propria diversità, che lo spinge a non sentirsi parte né dell’uno né dell’altro mondo. Ed escluso da entrambi resta solo nel suo palazzo dorato. Particolarmente commovente è la scena in cui Don chiede all’amico:
E se non sono abbastanza nero e non sono abbastanza bianco e non sono abbastanza uomo, dimmelo tu Tony cosa sono?
Don Shirley rifiuta di essere etichettato in base al colore della sua pelle e se ciò è assolutamente legittimo, questo atteggiamento però talvolta lo spinge a precludersi tutto ciò che riguarda il mondo della comunità nera. A tal proposito è liberatorio il momento in cui decide finalmente di gustare del pollo fritto dopo essersi rifiutato per anni a causa dello stereotipo che lega questo tipo di cibo alle persone di colore, dal momento che il suo costo basso lo rende tipico di acquirenti con scarse possibilità economiche.
La compostezza e la diplomazia spingono Don a non reagire mai agli insulti più o meno velati che gli vengono rivolti, poiché crede che in questo modo ne uscirebbe comunque da perdente, poiché la colpa sarebbe fatta ricadere su di lui e non risolverebbe così la situazione. Ovviamente è consapevole del trattamento diverso che pure le persone che si considerano più progressiste hanno nei suoi confronti, ma preferisce comportarsi pacificamente, e dunque adattarsi. Ciò avviene anche perché non vuole essere considerato come il famoso musicista di colore vittima di discriminazioni, ma desidera essere valutato soltanto per la sua arte.
In definitiva Green book è un film classico per la linearità della costruzione del racconto e il confortante happy end, che ricongiunge Don con quella parte della sua identità da cui ha sempre cercato di mantenere le distanze. Tutto ciò è perfettamente in linea con quello che lo spettatore si aspetta da questo genere di pellicola, un film rassicurante in cui nonostante le difficoltà i buoni hanno il proprio riscatto.
Una sceneggiatura semplice ma bella (non a caso si è aggiudicata l’ambita statuetta d’oro come miglior sceneggiatura originale) e con grandi interpreti, a volte un po’ macchiettistici nei loro ruoli ma in grado di far affezionare lo spettatore ai personaggi e alla loro storia, la quale è essenzialmente un racconto sulla difficoltà di definire la propria identità e sull’impossibilità di farlo in maniera univoca.