Quanto tempo è che i siciliani non sono i siciliani ma la loro rappresentazione?
"La Sicilia è un'isola per modo di dire" di Mario Fillioley
Quanto tempo è che i siciliani non sono i siciliani ma la loro rappresentazione? (p.50)
Fillioley (La Sicilia è un’isola per modo di dire, minimumfax, 2018), divertendo il lettore, ricordando il suo passato senza abbandonarsi alla nostalgia, si chiede anche questo.
Poi sì, in effetti se riapriamo gli occhi dopo aver ascoltato la parola Cefalù, se accendiamo il pensiero, lo sappiamo, siamo consapevoli che la Sicilia è molto rappresentata in termini di finzione letteraria, cinematografica, poetica, folcloristica, però per uscire dalla finzione ci serve uno forzo che non facciamo quasi mai, l’isola è controintuitiva e noi comunque preferiamo intuire, misurare è noioso, a intuire ci si sente più intelligenti, una curva, una sola, in mezzo alla polvere, e cucù: il mare! Non te l’aspettavi, vero? (p.48)
Non serve sciorinare i nomi di tutti quegli scrittori, più o meno conosciuti, che hanno ambientato i loro romanzi su quest’isola. Fillioley racconta un’altra storia, la sua (non ci importa granché, ora, differenziare autore e personaggio, né è pertinente fare un discorso sull’idea di autofiction), emancipandosi da quella letterarietà (le implicazioni metafisiche ed esistenziali della terra, per esempio) e dagli stereotipi culturali da cui i siciliani talvolta faticano a uscire. Basterebbe questo per consigliare un libro che indubbiamente vale la pena di leggere, perché scorre, è fluido e ironicamente ponderato. Per qualche ora di lettura Fillioley, con il suo effetto di realtà, ci fa vivere lì, un po’ più lontani dai miti e dalle mistificazioni, in un’isola bella e ricca anche se piena di contraddizioni. L’autore stesso denuncia questo tentativo, autoironicamente, a proposito della sua prima prova narrativa:
io il libro [Lotta di classe, minimumfax, 2016] l’ho scritto in italiano, però parla di un siciliano che si è trasferito per lavoro in Umbria, si doveva sentire lo scarto linguistico; il suo parlato, la sua sintassi, sono modellati sull’italiano che si parla in Sicilia. Un esperimento. Riuscito? Non penso, però uno almeno ci prova, sennò che fai? Di nuovo la cavalleria rusticana? Di nuovo Compare Turiddu? (p.49)
La Sicilia è un’isola per modo di dire si apre in un mare (quello vero, di mare, è tradimentoso, come spiega il padre) di toponimi siciliani. È una geografia ubiqua per gli ignoranti come me (quanto distano i lati del triangolo siciliano?), un mondo purtroppo anche tarlato dal petrolchimico e dall’abuso edilizio, causa o conseguenza del battesimo turistico dell’isola. Vorrei trovare un modo anche io, da romano, per conoscere la Sicilia al di fuori della letteratura e delle vacanze: forse questo libro mi aiuta un po’, o quantomeno mi fa avere un’altra immagine, piacevole, dell’isola, sapendo però che essa non rappresenta nient’altro che un’idea. Fillioley insomma nasconde sé stesso nel suo libro e racconta una Sicilia curiosa, senza dubbio simpatica e originale.
Il narratore si ferma parecchio a ragionare sul turismo e sugli scempi di alcuni degli autoctoni per incentivarlo; ricorda alcuni momenti della sua esistenza, come l’esperienza scolastica vissuta sotto il giogo della marziale professoressa Sciabarrà e del suo complesso d’inferiorità verso le scuole eccellenti del Nord. Quella che frequenta il narratore da bambino è una scuola dove gli alunni, vicendevolmente vessati, giocano per esempio a sputarsi (sulla violenza dei piccoli, a prescindere da questo, Sant’Agostino aveva ragione, Rousseau torto) e si ingiuriano scimmiottando i significanti sconosciuti, gli anacoluti, i vituperi dei Promessi sposi (e Fillioley ci fa ridere parecchio, quando ricorda le ingiurie anacronistiche che volavano tra i banchi di scuola). Questi compagni quindi sono violenti, hanno una strana concezione del divertimento e passano il tempo pestandosi; nonostante un piccolo cedimento all’età di sei anni, il narratore cercherà tuttavia di esimersi da questi ruvidi passatempi.
Ci racconta spesso di episodi scolastici, ricordi di quando era uno studente o, più avanti, un professore. La mafia è pane quotidiano (e i panettieri di questo libro sono mafiosi): la mafia è quasi dovunque, ma non tutti sono mafiosi, anche se una studentessa si sorprende che il narratore sia solamente un professore, forse fa strano che abbia un lavoro normale (normale?) senza sparare a nessuno.
È siculorientale, non siculoccidentale, come la caponatina che cucinerà insieme alla fidanzata, attraverso cui si potrebbe entrare nell’ordine del simbolico, un’ esperienza che oltretutto rende manifesta l’inconciliabilità delle loro famiglie. Ci spiega che
La Sicilia ha la forma di un triangolo storto, però le Sicilie sono due, e Napoli non c’entra niente: un siciliano, nella sua mente, tira sempre una diagonale più o meno da Messina giù fino a Gela: da un lato è Occidente, dall’altro Oriente. Quanto tempo è che abbiamo questa diagonale in testa? Chi lo sa, da quella parte i Sicani, da quest’altra i Siculi, dall’età del bronzo, forse quella del ferro, protostoria, poi storia, poi post-storia, adesso siamo tutti siciliani, va bene, però siciliani è la crasi di siculi e sicani, per arrivarci ci sono volute una serie di guerre, o vogliamo chiamarli genocidi, stermini, cose che all’età del bronzo erano consentite, nessuna sanzione dell’Onu a rovinare gli olocausti. Milletrecento anni prima di Cristo, arrivano i Siculi e scacciano i Sicani dalla costa: sciò, via, andatevene all’interno. Il mio lato, Pantalica, tanti di quei morti che sul calcare spunta una necropoli rupestre a strapiombo sull’Anapo, cinquemila tombe scavate nel bianco del calcare, il più grande cimitero dell’Europa precristiana, deportazione verso l’interno, guerra, come la vogliamo chiamare? Dice: va bene, però poi basta, avete fatto la pace, c’è stata la crasi. Quando mai. Cioè sì, ma c’è voluto tempo. (p.40)
Chi ci racconta questa storia dalla Sicilia va a Pisa, poi a Milano, sempre per studiare. Ciò che lascia dietro di sé, la terra natia, gli resta affibbiato, sembra come se dovesse giustificarsi della sua sicilianità e della sua discendenza normanna:
Tutti sembravano volersi dimostrare istruiti su cose che riguardavano il mio luogo d’origine. I normanni servivano a dichiararsi edotti circa le indiscusse particolarità storiche e antropologiche della Sicilia, perché agli occhi di chi mi incontrava la Sicilia non era una regione come le altre, era diversa, aveva una storia tutta sua, c’erano motivi storici, antichi e contemporanei, che la rendevano peculiare rispetto al resto dell’Italia. I siciliani (e solo i siciliani mi sembrava che lo fossero quando me lo spiegavano) erano meticci: potevi incontrarne uno olivastro e col sangue levantino e un altro biondo, ceruleo e con la passione per la poesia provenzale, in tutto simile a uno svevo dell’anno Mille, un crogiolo, di culture, architetture, dominazioni, genio italico, commercio fenicio, mollezza araba: un posto speciale. Pure io, a un certo punto, mi ero convinto di essere speciale, forse a causa di quegli occhi e di quei capelli che a casa mia erano del tutto normali, e sul Continente invece no, o almeno non su di me, che venivo dalla Sicilia. Ero speciale, pensavo, perché mia madre si era concessa a un normanno: magari, mi andavo consolando, questo normanno nemmeno le piaceva, se lo era fatto piacere per forza, avrebbe preferito concepirmi con mio padre e invece si era sacrificata per me, affinché il nord-man conferisse a suo figlio le stigmate dell’eccezione. (pp.93-4)
Così, per fare un altro esempio, verso la fine del libro, viene presentata Siracusa:
Quando rientro dopo un lungo periodo passato fuori, ho sempre quei due, tre giorni in cui mi sembra che questa città possieda una quantità di bellezza che non si può consumare: cioè, pure con tanto impegno, mettendosi là a cercare sempre nuovi modi per approfittarsene, la natura benigna l’ha fatta così, e diciamo che le puoi mettere addosso brutti vestiti, brutti orpelli, la puoi ingrassare o dimagrire, ma rimane bella comunque e gli occhi non finiscono mai di trovarla bella. C’è anche da dire che Siracusa, gira e rigira, viene quasi sempre visitata da quello che nella vita si innamora soprattutto quando pensa che ci sia una bellezza che vede solo lui, uno che si sente furbo o pensa di avere più buon gusto degli altri, e si convince e si compiace di aver visto la bellezza dove i superficiali, gli sbadati, i frettolosi, non si sono soffermati, non si sono accorti che c’era. E Siracusa, che è di una bellezza sempre in lotta con lo svilimento, la trasandatezza, la sciatteria, si approfitta di questo tipo di cotte molto intense, che sono una cotta verso di lei e una cotta verso te stesso che ti senti un intenditore, che ti sei convinto di avere saputo vedere dove gli altri guardavano e basta. (p.136-7)
Fillioley ha scritto un libro intelligente (senza offesa): non fa un po’ sorridere che per arginare la mistificazione letteraria di questa isola per modo di dire serva un libro? Eppure è così.