“Il buio a luci accese”
di David Hayden
Quelli come me, che anche nelle scelte più semplici si lasciano guidare da antiche abitudini, sarebbero andati a dormire e, sebbene mi sentissi stanco, mi sembrava rischioso e poco educato cadere addormentato ora, cioè dormire mentre cadevo, così ho resistito fino all’alba, quando gli occhi sono diventati l’unica parte del mio corpo con un peso, tanto che li sentivo spingermi verso terra, sfere verso la sfera (p.12).
La casa dei ricordi è nella mia mente. Oggi e ogni giorno. Ogni cosa è se stessa ed è un varco verso un altro oggetto o verso un evento temporale che è avvenuto o quasi avvenuto o non è mai avvenuto (p.40)
Fiordalisi, cerulei, viole del pensiero, violette occhieggianti, speronelle, porporine cresciute, primule, giallo-dente, lo sguardo in alto, senza vedere, stelle di calendula, timo, riccioli verdi serrati e speziati, margherite, ali sparse, palmi aperti; e, sopra tutto, api grassottelle che dondolano ebbre nell’aria tiepida (p.67).
«Continuo a pensarci. Se solo avessi preso le mie medicine, il mondo sarebbe ancora qui» (p.122).
«Once in a blue moon, a book comes along that really is like nothing you’ve ever read before. The 20 stories in this debut collection from David Hayden are strange, uncomfortable fables of memory, metamorphosis, time, disassociation and death: hard to fathom, but impossible to ignore; twisty and riddling, yet with a blunt impact that reverberates long after the final page» (Justine Jordan, The Guardian).
L’incipit del primo racconto assomiglia vagamente a quello, sospeso per parecchie pagine, dei Versi satanici di Salman Rushdie: un uomo si getta da un cornicione. Mentre cade, continuano le sue elucubrazioni curiose, effimere e normali. L’immagine della caduta mi sembra efficace per introdurre Il buio a luci accese (Darker With The Lights On, 2017), la raccolta di racconti dell’irlandese David Hayden, tradotta ora per la prima volta da Riccardo Duranti e pubblicata quest’anno da Safarà editore.
È un peccato che non si possa definire come un libro di merda, perché Hayden pare avere un certo tarlo per la dilatazione simbolica del concetto di defecazione – quasi una nascita allucinata, un battesimo in un mondo popolato da creature curiose.
I protagonisti dei venti racconti sono quasi sempre uomini a cui potrebbe succedere di tutto. Questa è senza dubbio una delle ragioni per cui Il buio a luci accese mi ha affascinato, al di là delle sue immagini sanguinolente ed esorbitanti che non mi hanno entusiasmato più di tanto. Un tema forte è rappresentato dalle metamorfosi a cui è soggetto il corpo – un vero e proprio linguaggio. Ricorda per certi versi il primo Landolfi, quello per esempio de La pietra lunare. L’io si disgrega senza un insegnamento morale e certe morti sembrano inutili. Come lettore, da un punto di vista etico, mi hanno lasciato piuttosto indifferente. In un clima sadico, satirico e grottesco, sembra che alcuni personaggi meritino una morte atroce. Forse è sbagliato divertirsi imbattendosi in un susseguirsi di racconti strambi e pieni di violenza fine a sé stessa. Talvolta irriverente, capita che Hayden, soprattutto al finale, ceda alla tentazione di scrivere frasi più serie. L’effetto di straniamento è totale:
Lo si toglie gli scarponi; si spoglia. Cade la pioggia ed è tiepida e pulita. L’ascia smette di muoversi e Lo s’asciuga al nuovo sole che è sorto da dietro le montagne. Lo si solleva lentamente e l’ascia lo taglia e le membra finiscono a riposo, mentre la testa cade sulla cima più alta, sputando e tossendo, poi si leva la voce che canta: «Un giorno. Un giorno tornerò a essere intero» (p.74).
Lo stesso ufficio stampa (la gentilissima Serena) presenta questo libro come un esempio del nuovo weird irlandese. (New) Weird: un’etichetta difficilmente traducibile, studiata a fondo da Mark Fisher insieme all’eerie: non è strano, meraviglioso, perturbante, niente a che vedere con Todorov; impossibile ridurlo a un’idea convenzionale di fantastico, né al mondo del fantasy. Questo termine viene usato talvolta impropriamente – anche se fatico a capire quando un’opera è weird, non è possibile che vada sempre bene.
Così scriveva ormai più di dieci anni fa da Bruno Bacelli:
Che sia un’etichetta applicata ad autori diversi per evidenziare le somiglianze dei loro lavori o un movimento consapevole, il New Weird è caratterizzato dalle ambientazioni realistiche, complesse e spesso urbane dove manca il romanticismo e il senso del meraviglioso come si trovano nel Fantasy tradizionale; abbondano invece elementi surreali e bizzarri, spunti horror e fantascientifici, elementi inquietanti che mirano a disorientare o a mettere a disagio il lettore, ma allo stesso tempo a solleticarne il gusto per l’eccentrico. Non indispensabili, ma non mancano, i contenuti sociali e politici.
Negli ultimi tempi, la new weirdness è stata scoperta anche negli scritti di molti autori italiani novecenteschi apparentemente insospettabili. Anche se da questi interventi sono sorte nuove e curiose chiavi di lettura, un nuovo piccolo canone, mi domando lo stesso come avrebbe reagito a questo concetto un critico letterario del secolo scorso – sarebbe stato interessante saperlo. Carlo Mazza Galanti prova a fare chiarezza e scrive su Not una ricognizione fondamentale, dando una visione d’insieme abbastanza sorprendente. Nello stesso link si trovano i contributi di vari altri nomi che si sono incentrati su un determinato scrittore italiano: Papini, Savinio, Landolfi, Buzzati, Calvino, Primo Levi, Wilcock, Soldati, De Maria – anche qui -, Morselli, Volponi, Manganelli, Ortese, Evangelisti, Moresco, Mari (per me, forse il discorso su Volponi è il più suggestivo). Sono poi emersi anche altri nomi più contemporanei, come Gabriele di Fronzo.
Tre mesi dopo, è il solito Vanni Santoni a tornare su quella che considera
«una reale e generale tendenza della nostra narrativa» (qui, altro materiale sul “Novo Sconcertante Italico”). L’etichetta di italian weird è stata criticata, per esempio, su crapula. E questa sarà sicuramente una rassegna parziale e indicativa, per dare l’idea di quanto il discorso abbia incuriosito e stimolato parecchie persone.
È indubbio che molti racconti di questa raccolta siano un po’ weird. Altrettanto indubbio è che imbattersi, leggendo, in un’epidemia di lacrime, attraverso cui è possibile perfino irrigare i campi, sia stranamente piacevole. Non si capisce perché i lettori si ostinino ancora a giudicare e interpretare un libro secondo il criterio della verosimiglianza. Non ci importa niente che manchi l’effetto di realtà (peraltro: quale realtà?). Anche se l’autore è resuscitato e ogni libro nasce in una determinata realtà storica, non bisogna dimenticarsi che la letteratura è sempre letteratura. Però, sempre, chi legge arriva più o meno legittimamente alla realtà, anche allontanandosene per contrasto. Hayden apre porte (alcune socchiuse, accostate) di stanze in cui il più delle volte non sono riuscito a entrare: per questo mi piace, perché certe cose non le capisco – credo, comunque, che alcuni racconti siano più piacevoli di altri. Hayden crea mondi alternativi che nulla o quasi sembrano avere a che fare con la nostra vita. Eppure, chiuso il libro (anzi: ridotto a icona il pdf), ho pensato alla realtà.
Sulla tavola imbandita per una cena tra gentiluomini viene adagiato il cadavere di un uomo. I commensali si sorprendono per un momento, poi continuano a civettare come se niente fosse: sono piacevolmente perplesso e continuo a leggere pieno di curiosità.
Ecco un esempio, credo, di atmosfera weird, ovvero l’incipit di uno dei racconti di questa raccolta, I resti del mondo che fu:
I campi grigi e inselvatichiti si estendono fino all’orizzonte, punteggiati da morene di detriti fumanti. Creature glabre si aggirano carponi intorno ai cumuli in cerca di suggerimenti e reliquie. Vicino a un boschetto, petali di un verde arrugginito ruotano in cima a una turbina a vento che si erge nel bel mezzo del giardino ben tenuto di una casa isolata. Sulla soglia siede una ragazzina esile e sorridente con un fucile sulle gambe. Dalle stanze alle sue spalle provengono voci maschili e più grandi di lei che cantano. A neanche un miglio di distanza, in una piega scura nel cuore del bosco, un vecchio nudo è seduto davanti a una tenda di tela. Su un ceppo mezzo fradicio davanti a lui è posata una grossa cornacchia (p.117).
Forse il racconto più interessante è Come leggere un libro illustrato, dove uno scoiattolo che pare conoscere la vita (soprattutto le disillusioni) si rivolge a una platea di bambini e attraverso i cerchi di fumo del suo sigaro spiega loro il significato di alcune parole pesanti (come parole, figure, tempo, prospettiva, punto di vista, ambientazione: quasi un piccolo corso di narratologia).
Grazie a Safarà, a Riccardo Duranti, a Serena Talento, un po’ anche a Hayden per questa raccolta.