Un’eterna dipartita
tra suicidio e letteratura
– E.Manet, “Le Suicidé”, 1877-81 –
La materia di cui tratterà questo breve articolo è talmente elevata, sensibile e compiuta in sé, che ulteriori parole risulterebbero frivole e superflue.
Questa sorta di recusatio non inganni, perché l’universalità è tale da rendere fuori luogo ogni appunto, commento, conclusione.
Se Cesare Pavese, colpito da un profondo senso di colpa causato dalla imperfetta partecipazione alla Resistenza, non è stato in grado di intervenire attivamente all’interno della vita politica e sociale del proprio tempo, Vladimir Majakovskij, al contrario, fu in vita e divenne presto un esempio dell’intellettuale russo che milita, lotta e si oppone alle ingiustizie di classe. Entrambi i poeti condividono inoltre una profonda ricerca interiore vòlta ad una conoscenza individuale e del mondo, filtrato attraverso gli occhi di chi non è in grado di accettare la realtà e non acquieta il proprio animo, di chi combatte, utilizzando una penna oppure militando; entrambi tesi all’infinito, senza dimenticare il tempo presente.
“Il mestiere di vivere”, diario ultimo di Pavese trovato tra le sue carte in una sbiadita cartella verde, termina così:
“ 18 agosto.
La cosa più segretamente temuta accade sempre.
Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?
Basta un po’ di coraggio.
Più il dolore è determinato e preciso, più l’istinto della vita si dibatte, e cade l’idea del suicidio.
Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio.
Tutto questo fa schifo.
Non parole. Un gesto. Non scriverò più.” 1
Tra le righe è limpida la volontà di porre fine ad un’esistenza di un poeta la cui fama raggiunta non è stata sufficiente a saziare una fame di verità, mai ottenuta in alcun modo, come è magico e immortale che sia, e una tranquillitate animi, assente, dimenticata o perfino sconosciuta. Senza dimenticare l’amore, vissuto da Pavese come un sentimento pieno di contraddizioni, a volte dolorifico e altre, di rado, dolce.
Questa ambivalenza amorosa è comune a Majakovskij e sebbene sia un cliché letterario è autentica in entrambi: il poeta rivoluzionario ama il gentil sesso e lo decanta, come fosse per certi versi un romantico arrivato in ritardo, tra un movimento dello spirito – eternamente in conflitto- e l’altro.
“Perdono tutti
e a tutti chiedo
perdono.
Va bene?
Non fate troppi
pettegolezzi”
L’ ultima lettera di Majakovskij incomincia così: «Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi», e continua, in modo commovente, «Voi che restate, siate felici ». 2
È il 14 Aprile 1930 quando il poeta pone fine alla propria vita ( anche se alcune incertezze sull’autenticità del suicidio sono sorte). Venti anni prima di Pavese, che scriverà proprio, come ho scritto, « Non fate troppi pettegolezzi ».
Se la sequenza logica e cronologica del mio scritto pare inversa, sarà tale, principalmente perché l’ultimo grande scrittore chiamato in causa proviene dalla fiorente e prospera terra russa.
Evitando di analizzare il dettaglio, senza ragionare sull’intreccio, ne “I fratelli Karamazov”, capolavoro della maturità di Dostoevskij datato 1879, il settimo dei dodici libri è dedicato alla figura di Alëša, il terzo ed ultimo dei figli legittimi, un animo tutto spirituale che trascorre molti dei proprio giorni in un monastero, fedele alle Sacre Scritture e alla ricerca del bene, tentando di mitigare le coscienze.
Il suo stàrec, monaco vicino alla santità, una guida spirituale, gli ha detto, poco prima di passare a miglior vita, di andare e « abitare nel mondo »; in un dato punto della narrazione egli viene tentato da una ragazza dedita ai piaceri del mondo terreno, carica di un affetto ambiguo.
Vinta la tentazione, proprio al termine del capitolo che gli ruota attorno, si genuflette sulla nuda terra che riempie di baci, piange lacrime di gioia come fosse in estasi, e promette dal profondo del cuore un’eterna fedeltà ai principi morali e una devozione alla legge di Dio. È un pensiero letterario solenne, nobile, immensamente umano.
Leggiamo: « Era come se i figli degli infiniti mondi divini si fossero intrecciati insieme nella sua anima ed essa vibrasse “al contatto con altri mondi”. Avrebbe voluto perdonare tutto a tutti e chiedere perdono, non per se stesso, ma per tutti e per tutto, “per me saranno gli altri a chiederlo”, gli risuonò ancora nell’anima. Ma a ogni istante percepiva con più chiarezza, quasi a poterlo toccare, che qualcosa di forte e d’incontrollabile, come quella volta celeste, gli scendeva nell’animo. Una certezza s’impadroniva del suo spirito, e ormai per tutta la vita e per l’eternità ». 3
Majakovskij scrisse «niente pettegolezzi », e Pavese lo seguì, preponendo « perdono tutti e a tutti chiedo perdono », proprio come Alëša, cioè Dostoevskij…
1 Cesare Pavese, “Il mestiere di scrivere”, Einaudi Editore, 1968, p. 362
2 G. Buttafava, “Per conoscere Majakovskij”, Mondadori, Milano 1977, p. 367
3 F.M. Dostoevskij, “I fratelli Karamazov”, Newton Compton Editori, 2015, p. 369