La traduzione letteraria come processo creativo: Italo Calvino e “I fiori blu” di Queneau
Voci diverse e ponti tra lingue
Un’annotazione nel mio taccuino risalente a un anno e mezzo fa, in piena primavera, diceva «Quando leggiamo un’opera letteraria straniera apprezziamo la voce dell’autore o del suo traduttore?». Una domanda apparentemente ingenua, forse desacralizzante nei confronti dell’ambita totale fedeltà che si vuole dimostrare nella trasposizione da lingua di partenza a lingua d’arrivo. A distanza di un anno, ho cercato di rispondermi, mettendo al centro dell’attenzione lo sviluppo della stilistica di un autore francese, Raymond Queneau, e la traduzione del suo bizzarro modo di scrivere, intrapresa da Italo Calvino nel romanzo I fiori blu. A seguito di una lunga ricerca in cui ho sguazzato tra i linguisti americani e gli strutturalisti francesi, ne è risultata un’analisi stilistico-fonologica che sfiora le ottanta pagine di documento Word. Quest’ambizioso lavoro ha preso prontamente il via appena lessi un piccolo estratto della Nota del traduttore di Calvino nel retro di copertina del romanzo francese.
Appena presi a leggere il romanzo, pensai subito: “È intraducibile!” e il piacere continuo della lettura non poteva separarsi della preoccupazione editoriale, di prevedere cosa avrebbe reso questo testo in una traduzione dove non solo i giochi di parole sarebbero stati necessariamente elusi o appiattiti e il tessuto di intenzioni allusioni ammicchi si sarebbe infeltrito, ma anche il piglio ora scoppiettante ora svagato si sarebbe intorpidito… ma il libro cercava di coinvolgermi… mi tirava per il lembo della giacca, mi chiedeva di non abbandonarlo alla sua sorte, e nello stesso tempo mi lanciava una sfida.
Al pari di Calvino, che si è lanciato nell’impresa di un’apparentemente impossibile traduzione (come del resto tutti i testi di Queneau possono esserlo), è stato proprio lo stesso autore italiano a incuriosirmi e ad attirarmi nello studio delle più profonde strutture linguistiche e poetiche della stilistica dello scrittore francese. Per l’edizione italiana, infatti, il traduttore ha dovuto fare i conti con un linguaggio comico ma dotto, citazioni letterarie accanto a giochi di parole, una sapiente demolizione dell’ortografia francese e repentini salti tra diversi registri linguistici, sia per quanto riguarda le variazioni di lingua tra classi sociali (diastratiche) che temporali (diacroniche). Tutto ciò, è sostenuto da una trama altrettanto singolare e sorprendente, sorretta da una prosodia incalzante e vivace. Il celebre incipit non è che il prodotto di un’evidente momento di giubilo nella mente ingegnosa di Queneau:
Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I normanni bevevan calvados.
Come rendere dunque questo insieme linguistico eterogeneo in italiano senza perdere la voce dello scrittore? Per di più, in questo romanzo, il rafforzamento del valore espressivo della prosa è la quintessenza nella costruzione del linguaggio di Queneau. Il valore suggestivo delle sonorità (riconoscibile nelle ricorrenti allitterazioni, assonanze e rime) sostiene la piena identità del romanzo stesso, facendogli acquisire tonalità ironiche, sbeffeggianti e provocatorie. La voce dello scrittore infatti è un’istanza talmente connotata all’interno della sua opera che riconoscerne i tratti salienti è fondamentale affinché non venga persa l’essenza del libro durante la traduzione.
Di solito, è compito dei traduttori letterari rendere possibile la circolazione delle opere all’estero. Nonostante ciò possa sembrare ben evidente, che si tratti di una traduzione eccellente, discreta o mediocre, il miserabile nome del traduttore è quasi sempre nascosto nel frontespizio interno, scritto nel più piccolo carattere possibile, dissimulato tra altre informazioni tipografiche. Non è il caso invece delle diverse edizioni dei Fiori blu, in particolare la prima, dove il nome di Calvino è talmente ben visibile che quasi lui stesso sembra essere l’autore del romanzo.
L’importanza che incombe su Calvino (ben più noto tuttavia per la sua attività di romanziere che di traduttore) è ben giustificata. Quello che il lettore italiano riceverà due anni dopo la pubblicazione in Francia è una splendida riscrittura creativa o, come ci tiene a precisare Calvino, una traduzione reinventiva, nonché il solo modo di essere fedeli ad un testo di questo genere. Jakobson infatti precisa che “il gioco di parole, o per usare un termine più erudito e forse più preciso, la paronomasia, regna sull’arte poetica, e che tale dominio sia assoluto o limitato, la poesia per definizione è intraducibile. Solo la trasposizione creativa è possibile”. Per una prosa poetica come quella di Queneau, una traduzione approssimativa rischierebbe di causare la perdita della suggestività sonora e della ritmicità espressiva e, di conseguenza, di appiattire il testo rendendolo anonimo e neutro. È necessario essere consapevoli di una cosa in particolare: i giochi di parole, le figure retoriche, le citazioni e i pastiche letterari, le trasposizioni ortografiche del parlato che, in questo caso, arricchiscono Les fleurs bleues e ne sostengono il tono vivace e ironico sono appartenenti al patrimonio culturale e linguistico francese. Di conseguenza, solo nel contesto francese riescono a divertire il lettore, a fargli percepire la tonalità spesso comica e sbeffeggiante. Bisogna, infatti, prendere in considerazione che il sistema semantico-lessicale di una lingua non si sovrappone perfettamente a quello di un’altra lingua (è ancora Roman Jakobson che ci ricorda che non esiste un’equivalenza completa tra le unità linguistiche codificate). Inoltre, non tutte le lingue giungono in egual maniera alle stesse possibilità fonetico-morfologiche della lingua di partenza. Umberto Eco (autore del saggio Dire quasi la stessa cosa), senza troppi giri di parole, ci spiega che la traduzione non comporta solo un passaggio tra due lingue, ma anche tra due culture. Il traduttore deve quindi costruire un ponte tra i due universi semiotici affinché riesca a rendere fruibile lo stesso contenuto linguistico al lettore della lingua di destinazione, adattandolo al suo contesto culturale. E non solo. È oltretutto necessario tenere conto delle intenzioni comunicative dello scrittore, cosa che una trasposizione parola per parola ignora.
Per far ciò, il traduttore deve entrare in sintonia con l’autore, immergersi nel suo mondo linguistico, capire le regole del gioco e acquisire il suo timbro, la sua voce. Traguardo che Calvino, nella sua traduzione creativa dei Fiori blu, è perfettamente riuscito a raggiungere. Effettivamente, un lettore che abbia almeno un po’ di familiarità con i romanzi dello scrittore ligure può ben pensare, di primo acchito, che I fiori blu siano opera della sua mano. La ragione è ben evidente: oltre all’appartenenza a due mondi stilisticamente vicini, per far fronte alle problematiche della traduzione, Calvino ha intrapreso una riscrittura, poiché una traduzione letterale non avrebbe mai trasmesso l’ingegnosità dietro alla prosa poetica di Queneau, tanto elaborata quanto leggera.
Così, il traduttore ha spesso dovuto inventare nuovi giochi di parole e sfruttare in modo innovativo le sonorità laddove la lingua italiana non giungesse a un esito di trasposizione equivalente al francese. Si tratta dunque di un lavoro di adattamento, che spesso diventa un gioco di equilibro tra compensazioni e perdite. Difatti, non sempre la lingua italiana offre soluzioni felici per quanto riguarda la traduzione della prosa poetica di Queneau, così il traduttore è costretto a rinunciare alla trasposizione fedele, ma solo dopo essersi accertato di avere a disposizione un campo d’intervento nel testo dove operare delle compensazioni.
Una buona traduzione, com’è intuibile che sia, non si basa dunque sulla semplice correttezza linguistica e all’aderenza al significato originale del testo. Un buon traduttore è colui che, per il tramite della sua forza inventiva, va oltre alla parola scritta, la sfida e testa i limiti, ne intuisce le intenzioni semantiche e sonore per consegnare al lettore un testo pienamente fruibile dal punto di vista morale e culturale. In questo modo, il processo creativo della traduzione può dirsi fondato su una metodica follia.
Dunque, quando leggiamo un’opera letteraria straniera apprezziamo la voce dell’autore o del suo traduttore? In fondo, la domanda è tanto legittima quanto quella che si poneva Queneau: in questo romanzo, è il Duca d’Auge che sogna d’essere Cidrolin o è Cidrolin che sogna d’essere il Duca d’Auge?
di Elisa Cesaro