“Ho sentito qualcuno che ne parlava”
Orlando, un ascolto. Sandro Lombardi legge Virginia Woolf
La Natura, che si diverte con il caos e il mistero così che neanche adesso, primo novembre 1927 sappiamo perché andiamo al piano di sopra o perché torniamo di sotto, e le nostre azioni quotidiane sono come il passaggio di un’imbarcazione sopra un mare sconosciuto, e quando i marinai sull’albero maestro chiedono, puntando il binocolo all’orizzonte, se ci sia terra oppure no, domanda a cui, se siamo profeti dobbiamo rispondere di sì, mentre si siamo sinceri diciamo di no, la natura, che ha talmente tanto di cui rispondere oltre alla lunghezza ingombrante di questa frase, ha ulteriormente complicato il proprio compito, e accresciuto la nostra confusione dotandoci all’interno non solo di un perfetto guazzabuglio di cianfrusaglie […], ma ha fatto in modo che l’intero assortimento fosse cucito insieme con l’imbastitura leggera di un unico filo. La sarta è la memoria. Ed è una sarta capricciosa: fa correre l’ago dentro e fuori su e giù di qua e di là. Non sappiamo cosa stia per venire o cosa verrà dopo ancora. Così l’azione più banale del mondo, come sedersi a un tavolo e accostare a sé il calamaio, può agitare mille frammenti bizzarri e sconnessi ora brillanti ora sfocati penzolanti e ondeggianti pendenti e svolazzanti, simili al bucato di una famiglia di quattordici persone col vento forte.
La citazione è provocatoriamente eccessiva per i ritmi del web. Ma a chi abbia avuto la pazienza di arrivarci in fondo, e la lungimiranza di non indispettirsi di fronte a un estratto del genere, si chiede: come si legge? (La domanda tecnica in consonante aspirata scavalca con consapevole colpevolezza il rispetto delle cinque W.) Come si legge una frase così, un compendio di stile e poetica in milletrecento battute e molto, molto più fiato? Come la si fa vibrare in un libro pubblicato nel 1928 che non è un romanzo più che una boutade portata avanti per circa trecento pagine e quattro secoli di trama?
Come si legge, insomma, Orlando di Virginia Woolf?
Diciamo subito che non si tratta di un modo più o meno accattivante per introdurre la recensione di un classico, ma di un dubbio nato in modo spontaneo nel momento che ha preceduto l’ascolto di Orlando.
Lo scorso gennaio il romanzo della scrittrice britannica è uscito in versione audiolibro per la casa editrice emons, che ne ha affidato la lettura a Sandro Lombardi nell’ariosa e scorrevole traduzione di Mario Fortunato già edita da Bompiani nel 2019. Non è la prima volta che Orlando viene proposto per l’ascolto: dal 2018 sulle piattaforme Audible e Storytel è disponibile in una versione letta da cinque diversi interpreti, uomini e donne. Il che non è un dato da sottovalutare, considerati da un lato i geni androgini del romanzo di Woolf e dall’altro come questione mai secondaria la «voce del testo». Aspetti che per il lettore possono essere di maggiore o minore importanza (in fondo nella lettura silenziosa ognuno trova la propria combinazione fra ritmo e voce propri e quelli che escono direttamente dalle pagine), ma che per l’editore di audiolibri rappresentano l’equivalente di beccare al primo colpo l’interruttore della luce in una stanza buia. Un esercizio di immaginazione; chiedersi, appunto, «come».
Virginia Woolf comincia a scrivere Orlando nel settembre del 1927. La notizia è riportata nel diario che la colta scrittrice teneva quotidianamente in un atto di imposizione di disciplina, un’«auto educazione». Al giorno 20 settembre, Woolf annota l’intuizione di un nuovo libro che «potrebbe consistere in una sorta di memoir, biografie di persone davvero viventi. Una maniera per liberarsi dall’intollerabile noia della fiction». Il titolo arriva poco dopo, il 9 ottobre: Orlando. Una biografia. In quel momento Virginia è una scrittrice matura: è del 1915 l’esordio La crociera, di dieci anni dopo il successo Mrs. Dalloway, in mezzo ci sono altri libri (Kew Gardens, Notte e giorno e La stanza di Jacob) e gli articoli che fin dal 1905 pubblica su giornali e riviste, fra cui il «Times Literary Supplement» e «il Guardian»; la Hogarth Press, la casa editrice fondata col marito Leonard, durante gli anni della Grande Guerra si irrobustisce fra le traduzioni di stranieri, da Gor’kij a Dostoevskij a Bakunin a Čhechov, e la pubblicazione dei libri di Katherine Mansfield, Italo Svevo, Sigmund Freud e T.S. Eliot; attorno al Bloomsbury Group, di cui facevano parte, fra altri, la sorella Vanessa Bell e Vita Sackville-West, per anni la passione di Virginia, si riuniscono sempre più intellettuali. Nel 1927 era stato licenziato Gita al faro, e arrivata a questo punto Virginia sente la necessità di un cambio di rotta.
Nell’introduzione che precede la lettura di Lombardi, Mario Fortunato assegna a Gita al faro e a Orlando due poli opposti, dando un’idea molto chiara del punto in cui situare la svolta. Entrambi sono un palinsesto di eventi reali su cui riscrivere una verità seconda, letteraria, ma i procedimenti di contraffazione differiscono. In Gita al faro il desiderio è far emergere con forza i sentimenti nei confronti dei protagonisti, i genitori di Virginia, di cui si tace il nome ma di cui si ripercorrono con fedeltà emotiva le vicende; in Orlando invece tutto, nomi, luoghi e parte degli eventi, è «sfacciatamente reale». Sono dati che appartengono agli avi di Vita Sackville-West, con cui, arrivati alla data di concepimento del romanzo, la passione si stava lentamente spegnendo. Ma questa esibizione schietta della verità storica permette a Virginia di essere più distaccata rispetto a una prospettiva psicologica e sentimentale. All’intensità peculiare della scrittura dell’autrice di Mrs. Dalloway si aggiungono due tasselli importanti: l’ironia, lucida e brillante; e il gusto per l’invenzione fantastica.
Fu il figlio di Vita, Nigel Nicolson, a definire Orlando «la più lunga e seducente lettera d’amore mai scritta», ma in effetti il libro non è il ritratto dell’amante di Virginia. Come personaggio Orlando è anzi all’opposto della snob e conservatrice Vita, oscura e romantica: impetuoso, acuto, il protagonista è un anarcoide che si fa contagiare con estrema facilità dal «morbo» più potente di tutti, la letteratura (la gamma di espressioni con cui Woolf porta avanti la metafora letteratura-malattia è notevole e strappa una risata sincera), uno spirito inquieto che si arrovella e si strugge d’amore e libri per ben quattro secoli, e in una data imprecisata, nel momento in cui si trova come ambasciatore a Costantinopoli, dopo un sonno durato sette giorni, si sveglia come donna.
Orlando non è solo un esercizio di rielaborazione romanzesca di dati biografici. Virginia disprezzava il realismo con la stessa convinzione con cui la pura fiction la faceva sbadigliare; sfrutta allora l’impianto biografico – il bastione del realismo – per imbastire un’allegoria in cui divertirsi e prendersi gioco senza censure di una qualità tanto umana quanto letteraria: la fissità del genere. Tutto in Orlando parla la lingua di una vitalità infinita. Tant’è che si tratta dell’unico caso in cui un suo personaggio non conosce la morte.
Su questa base i critici hanno ampliato in seguito la definizione del figlio di Vita. Orlando sarebbe «la più lunga e seducente lettera d’amore mai scritta dal romanzo colto al romanzo popolare». L’estro creativo e la gioia che caratterizzarono la stesura rimangono forse un apice ineguagliato nella carriera di Woolf, che scrive di getto fino alla primavera del ’28. La forza dell’elemento fantastico e anomalo risuona in molti passaggi, dotati però di una concretezza potente: come nella scena che accompagna l’arrivo del Grande Freddo in Inghilterra, in cui i londinesi congelano dalla testa ai piedi non appena aprono la porta di casa e al primo refolo di vento vengono polverizzati, spaccandosi in mille cristalli; o quando Orlando, non ancora ripresosi dall’abbandono della sua passionale e volubile russa Saša, vede gli effetti del disgelo sulla città, con le acque in tumulto che trascinano via tutto con sé, i blocchi di ghiaccio ancora intatti e gli stessi cittadini; o nell’incontro col poeta Nick Greene, nella sua invettiva contro i poeti e gli scrittori, tanto accorata da chiudersi nella constatazione che «l’unica cosa che [si] poteva dire – concluse battendo il pugno sul tavolo – era che l’arte della poesia in Inghilterra era morta» (salvo ripetere lo stesso discorso anche tre secoli dopo, imbattendosi in Lady Orlando per le strade del centro); o, ancora, nella scena che precede il risveglio nel corpo femminile, un capolavoro di allegoria dal sapore medievale: le signore Purezza, Castità e Modestia si danno il cambio al capezzale del letto dove sta per avvenire la trasformazione, svanendo al suono delle trombe e al grido di: «Verità!», in un passaggio solenne che contrappunta il tono disteso e scanzonato, e la «normalità», della presa di coscienza di Orlando sul passaggio avvenuto: «Orlando è rimasto esattamente come prima, l’identità non è alterata. […] Il volto è quasi identico, la memoria senza ostacoli». Cambiamento «indolore e completo. Orlando è stato un uomo fino ai trent’anni e poi è diventato una donna, ed è rimasta tale». A cambiare è solo il pronome.
Coleridge affermava che ogni grande mente è androgina: a Orlando basta un grande sonno e un cambio d’abito a diventare donna, perché il femminile è già presente, realizza nella forma una sostanza. Così, il personaggio attraversa i secoli, e lo fa soprattutto attraverso l’arte: a seguirlo nello scorrere del tempo c’è l’unico poema che nella crisi successiva alla delusione d’amore non ha distrutto nel fuoco, La quercia. Qui la questione dell’identità si fa interessante. Per Virginia Woolf infatti la scrittura, in quanto esperienza estetica, precede l’identità. Ogni vita individuale è il prodotto di svariati secoli di identità altrui che si stratificano, e parlano milioni di voci. È sotto questo punto di vista che Fortunato può dire, rispetto al romanzo, che «il punto di approdo è sempre qui e ora. Moderno è un altro modo per dire adesso».
Lungo questa scia, i passaggi della seconda parte del libro sono magistrali; Orlando sente effettivamente delle voci.
Questo io di cui siamo costruiti uno sull’altro come una pila di piatti in mano a un cameriere hanno legami altrove, simpatie, piccole costituzioni e diritti tutti loro, chiamateli come volete, e per molte di queste cose non c’è nome, per cui uno arriverà solo se sta piovendo, un altro se si è in una stanza con le tende verdi, un altro se gli promettete un bicchiere di vino, e così via, perché ognuno può moltiplicare secondo la propria esperienza le varie condizioni che i suoi vari io hanno stabilito con lui.
[…]
Adesso siamo nella regione dei “forse” e dei “pare”, ma quell’io era diventato lontano, e cambiava con la stessa velocità con cui guidava la macchina. L’io cosciente, quello più in alto e in grado di desiderare, non vuole fare altro che desiderare. Ed è quello più vero, quello chiave, che comprende tutti gli altri io e li amalgama. E quanti io in Orlando! Uno per ogni stato d’animo, uno per ogni piccolo elemento della natura e della vita […].
E un io per ogni epoca. Il tempo e lo spazio sono personaggi vivi attorno a Orlando. Vengono evocati ogni volta dalla penna di un altro personaggio chiave del libro, il biografo. La sua presenza è essenziale, perché grazie alle incursioni così frequenti e ironiche il ritmo rallenta, i piani si moltiplicano. E grazie a lui il tempo è sempre uno scivolamento morbido. Il passare delle epoche si percepisce appena (la prima data riportata è il 1712, e si ricordi che tutto inizia nell’epoca elisabettiana) e i luoghi, il loro mutare, sono dipinti con altrettanta disinvoltura. I passaggi «ambientali» sono punti di grande forza nel romanzo: nella descrizione della conformazione urbanistica londinese, dell’evolversi della tecnologia che porta l’elettricità nelle case ora a più piani, solo un centinaio di pagine avanti scarne costruzioni perse lungo strade enormi e non lastricate, con l’orologio che batte le ore provocando «un grande shock per il sistema nervoso», i luoghi che Orlando attraversa suggeriscono frase dopo frase quanto il «tessuto stesso della vita [sia] magico», e sia così sotto tutti i cieli. Anche quando, da donna in fuga dalla fatuità della vita di corte, presso la comunità di zingari dove ha trovato rifugio (assieme a ciò che più desidera e invoca per tutto il romanzo, l’«Estasi!») sotto a una distesa di stelle e luna l’unica cosa che riesce a dire è: «Che buono da mangiare!»; utilizzando l’espressione zingara più vicina al concetto che ha bisogno di esprimere e suscitando così la perplessità degli zingari, linguisticamente e mentalmente più concreti. Immuni dal virus di cui era ammalata la stessa Woolf, la scrittura.
Sono molti gli aspetti che in Orlando meritano attenzione. C’è complessità, e allo stesso tempo una scrittura brillante e leggera (che la traduzione di Fortunato valorizza, basta un confronto con le edizioni precedenti per farsene un’idea). E questo nonostante al momento della pubblicazione Woolf avesse maturato delle perplessità: «Troppo lungo per essere uno scherzo, troppo frivolo per essere serio». Ma il racconto riesce a soddisfare un’esigenza che per Woolf era forte: far fuori «the damn egoistical self». Orlando è una costante, una invarianza presente soprattutto nella mente di chi è giovane. È un sé fluido e in costante cambiamento, intemporale e indefinito che si adagia sullo scorrere dell’esistenza; attraverso l’ignoranza del limite e del senso (presi al singolare, come normativi), oltrepassa la realtà.
Sarà allora il caso di tornare alla domanda iniziale: come si salda tutto questo?
Marco Lombardi è un nome più che noto agli esperti del settore teatrale. Assieme a Federico Tiezzi e Marion D’Amburgo (nome d’arte di Loredana Nappini) l’interprete toscano porta avanti dagli anni Settanta in poi una ricerca sul linguaggio in scena che, nonostante le etichette causino sempre non poco fastidio, si ascrive alla postavanguardia italiana. Vedute di Porto Said, Punto di rottura e Crollo nervoso sono spettacoli emblematici per capire il tipo di ricerca sul materiale sonoro che Il Carrozzone, poi Magazzini Criminali, in seguito Magazzini e ora Compagnia Lombardi-Tiezzi, portava in scena all’inizio solo per poesia e voce: un mélange di slogan, ritmo, pulsione, pulsazione e musica.
Nel percorso della compagnia e di Lombardi la parola arriva come seconda fase artistica, quando arrivano i testi originali di Federico Tiezzi. Ma Il Carrozzone aveva affrontato fin dalla sua nascita le «parole alte»: Dante, Jacopone da Todi, Allen Ginsberg, Pasolini; e la lettura scenica è fondamentale nel lavoro della compagnia, che laddove per questioni economiche o tecniche o organizzative non riusciva a portare spettacoli compiuti proponeva dozzine di letture di classici. In una vecchia intervista a cura di Oliviero Ponte di Pino, Lombardi ricorda di aver «macinato in quegli anni Pascoli, Dante, Manzoni, Pasolini, Luzi, Saba» e molti altri, e di essersi spesso rifatto a norme elementari per farli risuonare, norme di grande semplicità mutuate dagli anni di studio della metrica greca e latina. Come a dire che pur nella scia di un avanguardismo che si ispirava a Carmelo Bene lettore di Majakovskij, Holderlin e Campana, l’efficacia sta sempre nella sperimentazione del semplice.
Valéry diceva che «la poesia è un’esitazione prolungata fra senso e suono»; qui si dice invece che l’approccio di Lombardi è proprio in questo iato. È un’operazione di rispetto. Del resto anche la forza di Bene, sempre legato a un’idea di trasgressione, stava nella conoscenza e nell’aderenza ai ritmi, a cui poi aggiungeva la carica naturale dell’interprete. Il testo letto acquisisce sempre una forza seconda: quella primaria si arricchisce di quella sonora, che pertiene al lettore o al corpo scenico; non esiste la sola esecuzione. Nel lavoro quinquennale che Lombardi e la compagnia guidata da Tiezzi hanno fatto su Dante l’idea era proprio trovare un modo di pronunciare il verso che fosse individuale ma rispettoso dell’accento proprio di quel verso. Mancando l’uno o l’altro polo qualsiasi lettura diventerebbe monotona, perché ogni testo è fatto di mattoni, figure retoriche, pause, respiri; concretezze che permettono di andare al fondo del significato; nella loro fusione sta la forza. Lombardi segue quindi anche un altro principio, evitare lo psicologismo fine a sé stesso. Calarsi nel personaggio o nel suono da un solo punto di vista psicologico rende l’interpretazione l’ombra di un’ombra. La minaccia, afferma, è quella di una «mancanza di fiato» e di una «mancanza di traduzione»: l’attore non sa come arrivare in fondo alla frase perché non capisce come sia composta, e così il pubblico. È come se all’attore si richiedesse un lavoro di ecfrasi sonora, di eguagliare con arte e mestiere la stratificazione del testo. Mantenendo la psicologia ma senza appoggiarsi completamente ad essa. Pena, il cliché o la noia.
È curioso quanto questo approccio sia simile all’idea di Woolf sul genere letterario. In Orlando la dimensione psicologica dei personaggi non è legata a enfasi emotiva o patetica. La scrittura è sempre in equilibrio sul filo sottile a metà fra l’interiorità riflessiva del protagonista e la relazione che questi crea con l’esterno, un “fuori” fatto di mondanità ma anche di una dimensione poetica e spirituale. E lì si mantiene: le incursioni del biografo impediscono puntualmente che ci si perda nella psicologia. Provocano guizzi, salti. La costruzione è ricca, e l’abbondanza di figure retoriche nel procedere ipotattico delle frasi fa sì che nella lettura ci sia bisogno di pause frequenti e di uno sforzo d’attenzione. La scelta di Sandro Lombardi per l’audiolibro di Orlando è allora quanto mai azzeccata: il timbro caldo e le modulazioni della sua voce restituiscono questo equilibrio, sottolineando tutte le sfumature della scrittura, l’ironia, la presa in giro, l’intensità. In alcuni passaggi descrittivi risalta in modo particolare quanto Lombardi accarezzi quel crinale: come nel brano in cui Orlando, passeggiando fra le tombe dei suoi avi, prende la decisione che ciò che per cui sarà ricordato nei secoli, ciò che davvero lo renderà immortale, non saranno le battaglie e i meriti militari, ma la letteratura; in quel caso l’accento è solenne, ma della solennità imbronciata dei bambini, dalla lieve sfumatura capricciosa; o durante il chiacchiericcio alla corte di Costantinopoli, nel parlottare elegantemente macchiettistico che contrappunta la serietà annoiata delle cronache; o ancora nei guizzi onomatopeici che accompagnano i rapporti di Lady Orlando con gli intellettuali settecenteschi (almeno prima della catastrofe, una zolletta di zucchero lasciata cadere con troppa poca accortezza nella tazza di tè di Pope); passaggi in cui si sorride, ma in cui l’atmosfera generale è avvolgente e chiara. In altri momenti è invece bello soltanto lasciarsi cullare dagli accenti di dolcezza di cui è capace Lombardi – incredibile associarlo alla stessa persona che solo poco fa, prima della sospensione dell’attività dei teatri, ha interpretato Mefistofele nell’adattamento del Faust goethiano nell’ultima produzione Lombardi-Tiezzi –, dolcezza calma o profondamente partecipe, languidamente coinvolta nei passaggi in cui Lady Orlando sente più incombente e presente «lo spirito del tempo»: «Sto invecchiando. Sto perdendo le mie illusioni. Forse per prenderne di nuove». Se il personaggio si lascia catturare da una nostalgia profonda ecco che il ritmo rallenta, armonizzandosi con lo scorrere del tempo. La voce si fa roca nell’elencare gli obblighi sociali imposti alle donne dal savoir-vivre britannico (una lady ancora senza figli? Comprare lo stesso una crinolina, allora), per rilasciarsi in tristezza nel constatare quanto ci sia di ripugnante nell’indissolubilità dei corpi, nel matrimonio. Diventa trasporto quasi elettrico nel descrivere l’innamoramento di Orlando con Bonthrop, impenna in angoscia furiosa nel sentire sulle rive del Serpentine che il suo innamorato è in pericolo, fino a raggiungere il culmine nel finale. In quel momento emerge la vera forza del modo di Lombardi di interpretare la storia: l’impressione che la sua voce risuoni da un punto al di fuori del tempo, da un punto incollocabile nella Storia. Nell’ultimo brano, quando il personaggio, sfinito dal ritorno «nel fragile cuore [della sua] immensa dimora», risale il sentiero pieno di felci che disegna la collina per toccare il dorso della «sua» quercia, correndo con la mente a perdifiato fra territori, ricordi, volti e riascoltando le voci che l’hanno accompagnato attraverso i secoli, nel momento in cui il presente «piove» sulla testa di Orlando, la lettura dà i brividi: scende la notte dove tutto brilla con più chiarezza, tutto è più visibile che al mattino, e l’«Estasi» è un pensiero d’amore e salvezza, mentre batte la mezzanotte dell’11 ottobre 1928.
Secondo la direttrice commerciale della casa editrice emons Carla Fiorentino, questo è un momento benedetto per gli audiolibri. Sta lentamente venendo meno anche da noi il preconcetto sull’ascolto del libro come sottrazione di qualcosa alla lettura silenziosa, come se l’audio scontasse un peccato d’età nei confronti del cartaceo. Si tratta di un processo che in Europa è avvenuto molto prima. E adesso proprio a partire da Orlando la casa editrice sta mettendo a disposizione il supporto su file oltre quello su cd, che favorisce la fruizione in quanto può avvenire potenzialmente in qualsiasi luogo. L’audiolibro, in special modo quello che ripropone un classico, è infatti lo zoccolo duro del catalogo emons, perché è una partita che non si gioca tutta al momento del lancio. È un oggetto che continua a vivere anche a distanza di tempo, non da ultimo perché si tratta, nel bene e nel male – ma qui crediamo soprattutto nel bene – di oggetti «pulisci-coscienza». Fiorentino non nasconde che i nuovi ascolti siano probabilmente più difficoltosi, in quanto richiedono una soglia d’attenzione maggiore. Ma nel caso dei classici, che magari si è già letto in precedenza, questa modalità di fruizione seconda può funzionare come un faro: illuminando un angolo nascosto, mostrando delle sfumature che non si sarebbero colte. La presenza dell’attore può consegnare cose nuove. Per me che l’ho raccontato, e che quel pregiudizio sull’audiolibro lo coltivavo con cura, è stato di sicuro così.
di Maria D’Ugo