«Udite il caso lagrimoso e fero. Canto la storia di Leandro e d’Ero»
In una leggenda locale dell’Ellesponto (così veniva chiamato lo stretto dei Dardanelli, che collega il mar di Tracia all’Egeo e che fa da confine fra Europa e Asia) era narrato, in un tempo che ha perso ormai connotazione, l’infelice amore di Ero e Leandro.
Questa leggenda, strettamente legata ai culti dell’antica Grecia, nacque probabilmente entro il recinto dei templi pagani e visse molto oltre il momento in cui tali templi spiegarono al sole il candore dei loro sgretolati marmi. La storia è ben nota innanzitutto dai 343 esametri dell’epillio del poeta greco Museo (V sec. d.C.): Leandro, bellissimo giovane di Abido, si innamora della vergine Ero, sacerdotessa di Afrodite, che risiede sulla riva opposta dell’Ellesponto, a Sesto.
Un solo sguardo, durante la celebrazione della festa in onore di Afrodite, basta affinché il dardo di Eros penetri con piena potenza nel petto del giovane amante, il quale da quel giorno in poi, pur di incontrare l’amata, ogni notte attraversa a nuoto lo stretto di mare che li separa, guidato dalla luce di una lanterna accesa da Ero sulla cima della torre in cui lei viveva. Giunto l’inverno, e con esso le avversità del mare, Leandro continua ostinatamente le sue traversate finché, in una notte tempestosa, il vento spegne il lume: il giovane in balia dei flutti e privo di orientamento muore annegato. Nelle prime luci dell’alba Ero, che aveva atteso invano l’arrivo dell’amato tutta la notte, scorge il corpo esanime di Leandro sulla spiaggia e, in un impeto di dolore, si getta dalla torre, unendosi all’amato nella morte così come era stato nella vita, sancendo l’indissolubilità del loro legame anche al di fuori della mera contingenza terrena. A. Köchly (filologo classico tedesco che si interessò alla questione) definisce l’epillio ultimam emorientis Grecorum litterarum horti rosam, con cui Museo ridiede vita a questa leggenda di carattere eziologico, in cui l’elemento storico e quello fantastico si mescolano diventando indistinguibili parti di un’unica narrazione; lo stesso Museo lascia intendere questo all’inizio del suo carme:
L’una abitava a Sesto, l’altro nella città di Abido
di entrambe le città bellissimi astri pari l’uno all’altro.
Se un giorno passerai il mare in quel punto
cerca una torre, dove un tempo Ero di Sesto
stava dritta tenendo la lampada e così indicava la via a Leandro.
cerca il risonante stretto dell’antica Abido
che ancora piange l’amore e la morte di Leandro
Presso Sesto effettivamente sorgeva una torre, menzionata dal geografo Strabone come «torre di Ero» nel dodicesimo libro della sua imponente opera (XIII 22: ἐπὶ τὸν τῆς Ἡροῦς πύργον) probabilmente sede di un faro che serviva ai naviganti per gli attraversamenti notturni dell’Ellesponto, dato che in quel punto il braccio di mare è molto stretto, come ci conferma Plinio il Vecchio, il quale calcolò che la distanza tra le due città era di sette stadi, ovvero 1350 metri; dunque è probabile che fra le due città avvenissero regolari scambi commerciali.
È in questo modo che le ricostruzioni storiche si intersecano con il mito: attraverso i precisi meccanismi della letteratura, unico potente mezzo in grado di offrire il dono dell’eternità ad un faro che illumina sì il mare ai naviganti ma anche agli amanti: le caratteristiche geografiche del luogo che permettono, verosimilmente, l’attraversamento a nuoto, la presenza di fonti che ci parlano della torre di Ero, la stretta connessione commerciale tra le città di Sesto e Abido, sono tutti elementi che ci inducono a supporre la probabile discendenza storico-leggendaria dell’epillio di Museo e delle altre testimonianze letterarie, rielaborate con virtù d’arte. Tale leggenda divenne così celebre da essere raffigurata sulle monete locali di Sesto e Abido e su alcune pitture parietali pompeiane.
Per quanto riguarda le testimonianze letterarie, innanzitutto ricordiamo un epigramma di Antipatro di Tessalonica in cui ritroviamo gli elementi fondamentali del racconto, alcuni dei quali presenti anche in Museo: la torre, la lucerna e la tomba in cui i due amanti sono riuniti; sempre Antipatro, in un altro epigramma, parlando della pericolosità dell’Ellesponto, paragona la tragica storia di Ero a quella di Cleunice, naufragata mentre si recava a Sesto per sposare Deimaci, dove si nota una chiara inversione dei ruoli. Nell’Antologia Palatinala storia è trattata ancora in un centone anonimo e ricordata negli epigrammi di Agazia e di Paolo Silenziario.
Anche Virgilio in un passo del III libro delle Georgiche allude alla leggenda, pur senza fare i nomi degli infelici amanti, probabilmente superflui data la roboante eco che il tempo già aveva riservato a entrambi.
Numerose altre citazioni in passi di autori latini attestano la grande risonanza che ebbe questa storia nella letteratura; Ovidio scrisse due epistole, quella di Leandro a Ero e quella di Ero a Leandro, dove colse solo un momento della vicenda dei due sfortunati amanti, ovvero quello in cui non possono incontrarsi per via del mare in tempesta; una scelta, questa di Ovidio, che effettivamente può essere permessa solo dalla diffusa conoscenza della leggenda nel pubblico dei lettori del tempo, i quali potevano così apprezzarne solo una parte, conoscendo però già tutti i dettagli. C’erano dunque modelli precedenti, probabilmente ellenistici, conosciuti da Ovidio e Museo, oggi perduti. Tra i frammenti di opere greche, uno in particolare (contenuto in un papiro pubblicato nel 1982), di circa 50 esametri mutilati, potrebbe appartenere al modello ellenistico da cui Ovidio e Museo derivano.
La storia di Ero e Landro sopravvive dunque ai secoli e cambia forma: La cita Dante nel XXVIII Canto del Purgatorio; nel 1598 Christopher Marlowe scrive un poemetto dal titolo Hero and Leander durante il periodo in cui avvenne la chiusura dei teatri; rimasto incompiuto a causa dell’improvvisa e misteriosa morte dell’autore, nella versione di Marlowe i due amanti non annegano mai.
Franz Liszt scrisse la ballata n. 2 per pianoforte ispirato dal mito e così anche Robert Schumann, il quale compose il ciclo degli otto Fantasiestücke op. 12 per pianoforte, in cui il quinto pezzo, In der nacht, è noto perché lo stesso Schumann affermò che dopo averlo finito si era accorto, con sommo piacere, che conteneva la storia di Ero e Leandro. Si narra poi addirittura che Byron fu talmente coinvolto dalla vicenda che volle verificarne la credibilità attraversando lui stesso a nuoto l’Ellesponto, mentre John Keats scrisse un sonetto intitolato Su un quadro che raffigura Leandro.
Insomma, la tragica storia dei due sfortunati amanti attraversa i secoli e diviene multiforme materia artistica, passando dalla verità storica alla leggenda, dalla poesia alla musica, dalle pagine alle scene, eterno paradigma dell’amore infelice che «irrorato di lagrime, non muore», così come ricorda il prologo dell’opera Ero e Leandro di Luigi Mancinelli su libretto di Arrigo Boito:
Canto la storia di Leandro e d’Ero,
su cui son tanti secoli passati,
amorosa così, che nel pensiero
ritornerà de’ tempi ancor non nati,
eterna come il duol, come il mistero
d’amore che ne fa mesti e beati,
fiore di poesia, tenero fiore
che, irrorato di lagrime, non muore.
Canto pei cuori inamorati, canto
per gli occhi vaghi e per le guance smorte,
per quei ch’hanno sorriso e ch’hanno pianto
in un’ora di vita ardente e forte.
L’antico amor ch’ io narro fu cotanto
che sfidò il mare, i fulmini e la morte.
Udite il caso lagrimoso e fero.
Canto la storia di Leandro e d’Ero.
di Giorgio Grande