Intervista a Cecilia M. Giampaoli su “Azzorre”, Neo Edizioni
Gianluca Garrapa: il romanzo di Cecilia M. Giampaoli è edito da Neo Edizioni nella collana i Nei, e è un romanzo difficile che però scorre, liscio.
È ambientato nelle isole Azzorre e di quel mare, questa scrittura, ha l’ambigua superficie rasserenante, di quei luoghi e di quei colori, percepiamo nello stile la mutevolezza ma la perentorietà degli eventi naturali. È un diario di viaggio, e il nucleo è l’abbandono e il senso di colpa, l’idea che forse tutte le cose sono connesse tra di loro e che una lunga catena di cause lega gli umani al mondo, un viaggio che l’autrice intraprende alla volta di Santa Maria: lì, l’otto febbraio 1989 un aereo si schianta impattando contro la collina di Pico Alto: «Niente fiamme. Nel bosco cala il silenzio. 144 persone perdono la vita, io perdo mio padre».
Cosa è successo, in seguito, nella tua vita perché nascesse l’urgenza di tornare in quei posti e scriverne una storia?
Cecilia M. Giampaoli: Tutta la vita in mezzo. Ho voluto ripercorrere il filo al contrario, come quando si riporta a terra un aquilone per trovare il nodo. Nell’89 avevo sei anni. A quell’età si finisce per diventare un tutt’uno con le cose che succedono perché non ci saranno molti ricordi a testimoniare che potevamo essere persone diverse. Quel giorno una parte di me si è cristallizzata nell’infanzia, l’altra è diventata adulta prima del tempo.
C’è un bosco dov’è caduto l’aereo: gli alberi in quel punto non sono più cresciuti. Provo un sentimento ibrido, così com’è ibrida la commozione, all’idea di avere qualcosa in comune con un’isola in mezzo all’Oceano, ferita quanto me da un evento incalcolabile che, nel male ma anche nel bene, mi ha portato a essere la persona che sono.
G.G.: pur nella drammaticità dei fatti, il libro riesce a colmare di bellezza lo sguardo del lettore: innanzitutto per la postura quasi antropologica nel delineare le credenze popolari, per esempio. La narrazione, pur essendo in prima persona, non si lascia inghiottire dall’ego narrante, e noi possiamo assistere, spettatori, agli incontri con gli abitanti, vediamo i loro visi accarezzati e induriti dal sole e dal mare. Come dietro una telecamera, seguiamo, senza esserne annoiati, il diario di viaggio: «Le persone che muoiono non scompaiono, si manifestano in noi, nei nostri cambi d’umore e in questo modo ci seguono nel corso della vita»: come hai lavorato nel passaggio dalla verità alla finzione?
C.G.: Ti ringrazio per questa domanda. Nella vita mi occupo di progettazione artistica: certi temi sono necessari, questo era il mio. Sono partita con l’idea di capire cosa sarebbe successo in me e sull’isola se ci fossi andata senza portare risentimento, perché di fatto non ne avevo.
Volevo vedermela con la mia storia e registrare questa operazione, per questo motivo ho scritto. I libri attraversano una perpetua resurrezione, rivivono ogni volta che vengono letti. Mi è sembrato il modo migliore per vincere idealmente la morte. Non posso dire che quello che ho scritto corrisponde perfettamente al vero, ma non posso dirlo solo perché il vero di cui si può scrivere non può essere che un punto di vista parziale. Il libro ripercorre con onestà quello che è successo e il mio modo di leggere la realtà. Ho cambiato solo due dettagli per ragioni stilistiche nell’ultima rilettura del manoscritto: ho sostituito lo zaino che avevo con una valigia e il mio tablet con un computer. Dunque la risposta è: ho lavorato come si fa con la fotografia, inquadrando quello che serve e lasciando fuori dai margini ciò che non era utile alla narrazione, dialoghi compresi.
G.G.: bellezza che è pure della natura. Si rischiava, nel descrivere i luoghi delle isole Azzorre, di cadere in uno pseudo-documentarismo da guida turistica. Invece, spesso, il punto di vista è magnifico e minoritario, i luoghi che ci accolgono sono vicoli, marciapiedi e scorci non propriamente turistici: «Il cielo è di tempera azzurra fra il gesso bianco delle nuvole e quello delle case. Per non perdermi cerco punti di riferimento a ogni incrocio. Fra le case e la terra c’è un equilibrio diverso da ogni altro luogo che abbia visto. Non credo si possa dire che siamo in campagna perché a Santa Maria la città non esiste.» Raccontaci come hai calibrato il tuo sguardo tra natura e paesaggio, come hai scelto gli elementi da descrivere per trasformarli in luoghi narrativi.
C.G.: Santa Maria è un’isola dalla bellezza semplice. È antica, familiare, dimessa come la cucina dei nonni. Fragile, apparentemente fuori luogo: una collina del Centro Italia sorta in mezzo all’Oceano in balia di tempeste e temporali.
Penso di riuscire a descrivere bene solo le cose che meravigliano me.
Credo che il processo di scrittura sia un’azione conoscitiva. Mi capita di capire bene le cose solo dopo averle scritte. Non ho dovuto scegliere dove fermare lo sguardo, ho raccontato ciò che avrei voluto sentirmi raccontare.
Quello che ho fatto è stato cercare le parole giuste, il significato, il registro, il suono e il ritmo più adatti a descrivere nel modo più terso possibile le situazioni che stavo vivendo.
G.G.: «la verità non la posso conoscere perché non riesco a vederla intera. Non potrò mai sapere tutto, e che verità è se non è perfetta?» parlando della morte, della scomparsa, dell’esistenza umana, questa una riflessione del tutto legittima.
Ma che rapporto esiste, secondo te, tra verità e letteratura? La scrittura ci aiuta a capire il mistero o a addomesticarlo per lascialo lì come uno spazio di vuoto creativo? E che rapporto c’è, adesso, tra la scrittura e la tua vita?
C.G.: Esistono approcci molto diversi alla scrittura. Nessuno migliore a priori. Tuttavia c’è una linea progettuale, o dovrebbe esserci credo, che guida la coerenza delle scelte che si fanno nella stesura di un lavoro. In questo caso per me era importante riuscire a muovermi nel recinto della realtà, uno spazio che è comunque troppo grande perché io possa percorrerlo per intero. La realtà include i ricordi e la dimensione immaginifica infantile che nel mio libro è importante quanto lo è nella mia vita: ingentilisce i momenti difficili, anche la morte, attraverso il processo di trasfigurazione tipico dei bambini, “come quando guardo le nuvole e ci vedo altre cose”, per citare Azzorre.
A scuola ho avuto un buon maestro di disegno dal vero, lui diceva che per disegnare bene bisogna conoscere e che per conoscere qualcosa bisogna girarci intorno. Ci faceva alzare in silenzio per osservare il vaso o la caffettiera che aveva messo al centro dell’aula. Ci faceva guardare gli oggetti da tutti i lati poi tornavamo al posto e, solo allora, potevamo pensare di conoscerli a sufficienza per cercare di descriverli dal nostro punto di vista. Penso che sia stato lui a insegnarmi a scrivere.
Scrivere mi piace quando mi aiuta a capire il mondo. Siamo sommersi di cose e anche di libri, la prima volta che sono stata alla fiera di Francoforte mi è venuta voglia di scappare. Non li ritengo oggetti sacri solo perché frutto di fatica e cellulosa, ci sono libri buoni e libri cattivi, libri che ti consegnano qualcosa di importante e altri che ti sfilano dalle tasche 15 euro per lasciarti più vuoto di prima. Chiaramente la mia idea di buono e cattivo è del tutto arbitraria, per questo, e lo dico con un po’ di ironia, sono una forte sostenitrice dell’autocensura dell’autore, solo chi ha prodotto qualcosa può sapere se l’ha fatto per noia, per necessità, per amore, per opportunismo o per bisogno di attenzione. Per quanto mi riguarda cerco di scrivere solo quando ho qualcosa da dire.
G.G.: «Ci sono due uomini seduti al tavolo dietro il mio, so che parlano di me, sto accordando l’orecchio ai suoni delle Azzorre, lingua compresa».
Il tuo libro parla di noi, anche, delle nostre paure, dei nostri limiti, dei mostri che ci portiamo dentro e dell’impossibilità di mutare il corso delle cosa, la nostra impotenza affoga nel mare delle Azzorre proprio come quel sole che la mattina risorge glorioso, convinti di trovare la risposta, la soluzione. Ma il romanzo parla anche ai nostri sensi, al corpo.
Ci descrivi il tuo romanzo attraverso i cinque sensi? Per esempio, se fosse un gusto, quale sarebbe?
C.G.: Spero di non allontanare nessuno: sarebbe quello della pizza margherita alla banana che Teresa mi ha fatto assaggiare la prima sera sull’isola. Qualcosa di familiare con un retrogusto assolutamente spiazzante. Il mio approccio alla scrittura deriva senz’altro dalle mie esperienze professionali. Ci sono moltissime analogie fra le arti visive e la scrittura. Io sono passata alla penna quando mi sono accorta che con un solo strumento, non ingombrante, potevo raccontare ciò che si vede: azioni, forme, colori, dettagli, ma anche quello che arriva al nostro cervello attraverso gli altri organi di senso: rumori, odori, persino sapori e sensazioni tattili. Lo ritengo un aspetto molto importante della scrittura ed è sicuramente centrale nel mio modo di usarla. Il linguaggio scritto è regolato dalla più efficace forma di sinestesia: sulla carta dei libri che ci hanno permesso di abitare storie e mondi mai visti resta solo la tipografia.