“La sottrazione”, di Alia Trabucco Zerán
Iquela e Felipe si conoscono fin da quando erano piccoli e hanno in comune un passato opprimente che non possono dimenticare. Il padre di Felipe è «presunto morto», probabilmente uno dei tanti desaparecidos della dittatura cilena; Consuelo, la madre di Iquela, ha una memoria che è come una «carta geografica dei suoi morti» e uno sguardo pesante, gravato da tutto quello che ha visto quando ha combattuto nella resistenza.
I due ragazzi cercano a loro modo di sopravvivere all’eredità che hanno ricevuto; Felipe vuole far quadrare il numero dei morti con quello delle tombe, in un paese in cui questi due dati non coincidono. Per riuscirci, prende nota dei cadaveri «intermittenti» che immagina apparire «una domenica sì e l’altra no» negli angoli più disparati della città, sottraendoli 5 a 5, con l’obiettivo di arrivare a zero («perché aggiungere è sempre stato il problema e sommare la risposta sbagliata»). Iquela ha un atteggiamento diverso, la sua irrequietezza si nasconde all’interno delle parole che, come traduttrice, cerca di capire e interpretare, e che possono essere «lievi come aliante o libellula» o «pesanti come grotta, cheloide o spaccatura».
In un clima asfissiante, aggravato da «un caldo appiccicoso che squaglia anche i calcoli più freddi», fa la sua comparsa Paloma, una vecchia conoscenza dei due protagonisti, rientrata in Cile per poter rimpatriare e seppellire il corpo di sua madre Ingrid. A causa di una misteriosa pioggia di cenere caduta su Santiago, il volo che trasportava la salma è costretto ad atterrare in Argentina, a Mendoza. Rimane così una tomba vuota e una missione da compiere: attraversare le Ande con un carro funebre per recuperare la morta e rimettere ogni cosa al suo posto.
La sottrazione (Edizioni SUR, 2020) non parla solamente di un viaggio ma affronta anche il tema della sopravvivenza e della memoria. La particolarità della narrazione di Trabucco Zerán è soprattutto la prospettiva: la dittatura di Pinochet e i suoi effetti devastanti vengono raccontati da una generazione che pur non avendo vissuto quegli eventi ne è rimasta irrimediabilmente condizionata.
La struttura del romanzo è architettata in modo tale da mettere ancora più in risalto il punto di vista dei personaggi principali. Una delle prime cose che si notano sfogliando il libro è infatti l’alternanza tra i capitoli raccontati da Felipe e quelli narrati da Iquela. I primi procedono con una numerazione inversa, dal numero 11 al numero 0, come a richiamare la bizzarra operazione matematica che dà il titolo al libro, mentre quelli dedicati a Iquela sono contrassegnati da due parentesi vuote, quasi a rappresentare la condizione emotiva della ragazza.
Il tutto è ben equilibrato e accompagnato da alcuni espedienti stilistici che servono e a creare coinvolgimento nel lettore. Le parti di Felipe sono scritte come un flusso di coscienza continuo e concitato, completamente privo di punti; solo virgole, congiunzioni e interiezioni frammentano le frasi, dando al testo un ritmo costante e lineare. All’inizio questa tecnica funziona molto bene, sia perché rende con efficacia il punto di vista del protagonista, sia perché è abbinata a uno stile ricercato e immaginifico («è notte sul mio palato e sulle mie palpebre»; «appendevo le mie idee ai cavi della rete elettrica, così magari si illuminavano»; «perché sono un fuoco con ali di sole in picchiata»). Il rischio di adottare questo tipo di scrittura è quello di non riuscire a mantenere lo stesso livello di tensione per tutto il romanzo, rischio che l’autrice riesce parzialmente a evitare proprio perché il flusso di coscienza è spezzato dai capitoli narrati in prima persona da Iquela. Questi ultimi sono caratterizzati da alcuni elementi ricorrenti che rendono bene il mondo interiore della protagonista, come le liste di oggetti su cui posa lo sguardo nelle situazioni di imbarazzo:
Sopportai il silenzio facendo una lista mentale di quello spazio, evitando così che il disagio si riflettesse nei miei occhi, sempre incapaci di dissimulare (e contai dodici valigie trascinate da corpi esausti, una collana di perle che reggeva una pappagorgia, due cartelli di cartone con cognomi stranieri e tre voli in ritardo, sospesi, cancellati).
I pensieri racchiusi tra parentesi sono il veicolo del senso di inadeguatezza di Iquela nei confronti di sua madre e del suo passato, da cui non riesce a emanciparsi:
Dovevo arrivare a casa sua senza deviazioni, attraversare il giardinetto pieno di fango e ascoltarla, guardarla senza guardarla (perché era insostenibile, quello sguardo, e mi sarei messa a contare i chiodi sulle pareti).
La sottrazione è anche un romanzo sensoriale, in cui la vista è il senso più importante: la narrazione è filtrata dallo sguardo dei personaggi, che trasporta il lettore in una dimensione onirica e totalmente soggettiva, tanto che non è sempre facile distinguere il sogno dalla realtà e capire cosa stia realmente accadendo.
Gli occhi di Felipe e Iquela sono rivelatori del loro modo di affrontare un passato comune. Quelli di lei sono sfuggenti, incapaci di sostenere il peso di tutte le cose che sua madre ha visto, mentre Felipe ha il dono di vedere i morti perché i suoi occhi sono dappertutto e questo moltiplica il suo tormento («lo sanno tutti: il dolore straripa dagli occhi e io ho centinaia, milioni di occhi»).
Il lessico, ricercato e lirico, è anche ambivalente, sfuggevole, come a voler confermare che la realtà oggettiva non esiste. Ogni generazione ha le sue parole, e questo emerge chiaramente nei discorsi tra Iquela e la madre. Anche Paloma, che ha vissuto gran parte della sua vita in Germania e parla uno spagnolo «corretto ma antiquato», ha appreso da Ingrid il vocabolario della resistenza:
[…] aveva imparato anche le altre parole, quelle che la facevano inciampare e sbagliare, quelle che significavano un’altra cosa per sua madre, per la mia (per tutti i nostri genitori): perché una chapa non era una serratura ma un nome di battaglia, una cúpula non era il tetto di una chiesa ma il vertice di un partito, un movimento non era un’azione e una facción era anche una corrente politica, non solo un tratto del viso.
Come è possibile quindi orientarsi quanto niente sembra avere un significato univoco? Il viaggio potrebbe essere l’occasione per rispondere a questa domanda, ma in realtà i tre ragazzi si ritroveranno impantanati nelle stesse dinamiche di sempre.
Eppure succede qualcosa mentre attraversano le Ande. Iquela capisce che solo rinunciando alle parole di sua madre riuscirà a trovare qualcosa di suo, che le appartenga:
Parole come perentorio e arsenali sarebbero rimaste sulle cime, rotaie e cheloidi (e rantoli, smagliature, schegge) abbandonati. Perché solo svuotandomi sarei riuscita ad affrontare quel viaggio (liberandomi da croste, dolori, lutti; pagando con sillabe quel debito incalcolabile, un debito che ci avrebbe lasciato un buco tale da farci ammutolire).
Anche per Felipe il viaggio è l’occasione per riappropriarsi di qualcosa che ha perduto. Crede che riportare indietro il corpo di Ingrid possa far tacere il dolore per la perdita del padre. Forse il titolo si riferisce a questo: non si tratta solo di un esplicito richiamo alla strana «aritmetica della fine dei tempi» con cui Felipe cerca di far tornare i conti, ma vuole indicare anche tutto ciò che la dittatura ha sottratto ai due ragazzi.
Il finale del libro è un’esplosione di immagini di distruzione e rinascita; gli eventi prendono una piega inaspettata e il lettore viene travolto da parole e pensieri sempre più allucinati, sconnessi, che terminano in un ultimo grido: «meno uno, meno uno, meno uno».
di Francesca Rossi