Norah Lange, “Figure nel Salotto”
l'assolutismo dello sguardo
Quando gli altri ricordavano calle Juramento, mi sorprendeva sempre la facilità con cui ripescavano una data destinata a durare, un episodio senza interesse, la gioia quieta di quanto vi era accaduto all’epoca. […] Per me invece quella casa era stata soltanto il posto più adatto e comodo per sorvegliarne l’altra. Se qualcuno sbagliava nel ricordare, una voce paziente correggeva il colore di un vestito o la sera in cui era stato chiamato il medico, e allora io a poco a poco mi estraniavo, perché calle Juramento per me sarebbe sempre stata – solo a sentirla nominare, poi poteva diventare altro – un salotto che dava sulla strada, con angoli appena più in penombra, e tre volti chiari che sembravano vivere a loro agio.
È con questo incipit che si alza il misterioso – e inquietante – sipario di Personas en la sala, penultimo romanzo della scrittrice argentina Norah Lange (1905 – 1972). Figura di spicco del movimento ultraista, nonostante le prestigiose collaborazioni con riviste come Martín Fierro e Prisma e le numerose pubblicazioni di poesie e romanzi, per molto tempo Lange è stata conosciuta soprattutto come la musa e la donna che, si dice, avrebbe spezzato il cuore a Borges, avendo sposato il suo antagonista letterario dell’epoca, Oliverio Girondo, a cui Personas en la sala è dedicato. Oggi si inizia finalmente a disseppellire l’originale e indiscutibile talento di una poetessa e autrice più che degna di attenzione e, grazie a Adelphi, da qualche mese è possibile leggere in italiano Figure nel salotto nella traduzione di Ilide Carmignani.
La cifra stilistica di questo romanzo è data dalla mancanza di una trama vera e propria, così come dei personaggi, prosciugati nell’esteriorità di volti quasi muti. Dalla prima all’ultima pagina, infatti, si viene immersi nella sequenza di istantanee catturate dal diaframma di un unico e assoluto sguardo, quello dell’ignota protagonista – di lei sappiamo solo che ha diciassette anni, null’altro, nemmeno il nome –, dietro la cui voce potrebbe celarsi la stessa Lange. Capitoli brevi si districano in periodi lunghi e complessi, tipici di certa prosa avanguardista novecentesca (si pensi a Woolf o Joyce), e avviluppano la lettura in vortici che sprofondano sempre più nella minuzia di dettagli e particolari, sfamando l’insoddisfacibile bulimia dell’unico sguardo autorizzato:
A volte quando ci sedevamo a tavola pensavo: “Che cosa rispondo se mi domandano che aspetto hanno, o se le descrivono, se pretendono di descriverle? O se qualcuno le incontra per strada? […] L’importante era che io le vedessi per prima, così da prepararmi le risposte, preservandole da risposte sconnesse e crudeli”.
Capita, tuttavia, che il flusso ipnotico di coscienza sia interrotto dall’accadere di eventi che, per la loro stessa natura, sono destinati a essere epifanici. La loro finalità narrativa è infatti quella di creare piccole fratture nell’intelaiatura del continuum e modulare la direzione dello sguardo, vero protagonista del romanzo.
Emblematico è il caso del temporale che, nelle primissime pagine, squarcia il buio di calle Juramento e prepara l’incontro con il mistero. Nell’aria densa delle notte, in cui tutte le cose sono uguali e indistinte – un po’ come nella vita abitudinaria di un’adolescente di Buenos Aires qualunque –, lo schioccare improvviso di un lampo fa emergere consapevolezze nuove, rende possibile la metamorfosi dell’ordinario nell’eerie. Come spiega il critico Mark Fisher nel suo The weird and the eerie (minimum fax, 2018), l’inquietante arriva dall’esterno, si insinua in ciò che è familiare e quotidiano, ma senza provocare quello shock cognitivo che è possibile ritrovare nei codici del weird – così cari al movimento surrealista, a cui Lange e i suoi contemporanei si avvicinavano.
Mi diressi lentamente nel salotto, che era al buio. Ricordo che passai davanti allo specchio della console nel preciso istante in cui un lampo col suo silenzio opprimente faceva impazzire le ombre. Non so perché, ma mi piacque lo spettacolo, vedermi riflessa nello specchio, gettata nello specchio da un lampo.
Il gioco dello specchio, del guardare senza poter toccare, del contemplare la propria oggettivazione estrinseca, prelude all’epifania dei volti: nella finestra illuminata della casa di fronte fanno infatti la loro comparsa tre donne, sorelle forse, sedute quietamente nel loro salotto. La stessa casa che la protagonista fino a qualche tempo prima aveva creduto essere vuota e affidata alle cure di un custode ora si trasforma e spalanca le porte su misteriosi segreti, in un complesso gioco di scatole cinesi. Eppure è proprio questa mancanza di luce, di chiarezza, la chiave definitiva per l’acquisizione del potere su quei volti:
Volevo conoscere infiniti dettagli silenziosi, senza aneddoti, senza nomi, perché al momento buono mancasse soltanto il tono delle voci, e le differenze minime dei volti. Sapevo che se fossi stata paziente avrei ottenuto i loro ritratti completi, nel modo in cui piacevano a me i ritratti completi: con un pezzo mancante, che conoscevo e potevo aggiungere solo io.
Si configura così una dialettica erotica con quei ritratti di donne. La protagonista ama e odia quelle figure, desidera vederle morte e spasima per l’angoscia di perderle; in altri termini le possiede, regge tra le dita quel pallido trifoglio dei loro volti a mo’ di ventaglio, come quando si gioca a carte. Il suo sguardo reclama il diritto di appropriarsene, di disporre della loro vita e della loro morte: «Io le guardavo come se avessi trovato, finalmente, quello che cercavo da molto tempo, senza sapere cosa fosse».
È forse questa, a ben vedere, la grande tentazione dell’artista che fa di questo romanzo, tra le altre cose, un testo meta-narrativo. Il gesto suprematista del dominio, del controllo su ogni più piccolo particolare porta alla morte di ciò che nell’opera dovrebbe invece vivere: i personaggi, gli attori con le loro inesauribili vicende. Non è un caso che tutto in Figure in salotto parli di morte e che l’ingresso della protagonista stessa in quel salotto, l’incontro con le tre donne, sia preceduto dall’apparizione di un cavallo morto in mezzo alla strada, «senza che nessuno sapesse da dove era venuto né a chi apparteneva». Si tratta chiaramente di un altro di quegli eventi epifanici di cui parlavamo sopra:
Conservavo la morte del cavallo in un posto speciale, senza discussioni né dettagli sbagliati, un posto a cui nessuno dei tre volti aveva accesso. I loro volti stavano in un altro e dovevo tenerli separati in caso terminassero. Allora avrei potuto scegliere fra il posto occupato dal cavallo morto e quello delle loro facce. Tra l’altro, non conoscendole ancora, mi ero potuta soffermare su ogni dettaglio […] a quel tempo il cavallo morto era stato sufficiente; adesso avevo bisogno del cavallo e delle tre facce.
La protagonista ha bisogno a tal punto di loro, di quei tre volti, da non resistere alla tentazione di creare l’occasione per un incontro ravvicinato, così da entrare lei stessa nell’opera che aveva sommessamente composto fino a quel momento. Quello che si prefigura è un attraversamento dello specchio, l’oggetto stesso del suo sguardo – non è un caso che di volta in volta ravvisi dei tratti di somiglianza con una delle tre, «soprattutto la sua voce, la sua voce così simile alla mia».
Nella casa delle tre donne, fredde e compite, ogni gesto si fa rito e la banalità dell’ordinario crea atmosfere surreali. Non c’è spazio per la spontaneità o il cambiamento sul palcoscenico che si cela dietro le persiane della casa di calle Juramento, e l’unico spettacolo è destinato a ripetersi eternamente uguale a sé stesso, quasi fosse una pena infernale: «Erano incapaci di fare qualcosa che non fosse premeditato». E lei, la protagonista, è dibattuta interiormente tra l’amare questa immobilità così fredda e assoluta, e il desiderare più vita per loro, le sue avventuriere:
Sentii che mi stavo irritando, che un’impazienza irrequieta mi saliva dalle braccia, per invitarla a dire qualcosa, qualcosa che non fosse per forza trascendentale o irreparabile. Lei però non era capace di parlare così, perché anche se mi diceva: «Non venga tanto spesso», o semplicemente: «Voglio cambiare sigarette», era sempre come se accumulasse ricordi ai piedi di una tomba già prenotata.
Ma è solo nel bianco silenzio di quella camera mortuaria che è il salotto, mentre le scruta intente a inventariare ricordi, che può veramente possederle, tenere stretti tra le dita i fili delle loro vite, e trovare in quello sguardo ossessionato un senso alla sua stessa vita e alla sua stessa morte.
Nello scorrere delle pagine, mentre ci si approssima alla fine, come il gorgo prima del risucchio, si percepisce un cambio di passo, l’avvento di un climax. Lei confessa alle tre donne che dovrà assentarsi per qualche giorno. La sua famiglia, da cui si è progressivamente alienata, preoccupata per il suo comportamento insolito e solitario, le prescrive un cambio d’aria nella località di Androgué. Le tre sorelle, avendolo scoperto, si preparano per il commiato, un apice che Lange aveva fatto simbolicamente presagire sin dall’inizio della vicenda. La protagonista, infatti, sceglie di indossare per l’occasione proprio quel vestito nero nuovo che al primo incontro non si era sentita di osare, e che ora proclama solennemente il lutto per la perdita di questo evanescente rapporto:
Sentirete la mia mancanza?
È il nostro mestiere […] siamo contente di averla conosciuta…
L’ultimo incontro è il meno artificiale di tutti, e la protagonista, in questa inaspettata umanità, presente il vero addio, la perdita del controllo su di loro:
Avrebbero forse approfittato della mia assenza per farsi strada, uscire dai loro ritratti e chiudere, finalmente, la finestra con un improvviso gesto domestico? Volevano smettere di essere, per qualche ora, le tre facce di fronte senza deludermi?
Così la partenza per Androgué coincide con uno strano ritorno alla realtà. Lo sguardo cessa la sua instancabile veglia, le abbandona per qualche giorno e loro, non essendo più guardate, dismettono finalmente la condizione di oggetto. Sono libere di sparire in quel mistero del tassello mancante che dischiude l’irrinunciabile spiraglio all’universalità dell’opera d’arte. Lo sguardo assoluto della protagonista si frantuma in un’infinità di punti di vista, di cui ogni lettore può ora assumersi la solenne responsabilità. Quella di calle Juramento torna a essere la casa vuota che era prima del temporale, mentre il suo sguardo, perduto tutto ciò che aveva da amare, si dispera:
Mancava un amore contrastato davanti al mio sguardo che non ce la faceva più, che non sapeva cosa fare, dove guardare per non abituarsi ai primi muri dell’angoscia, perché «Affittasi casa» era per sempre i tre volti che amavo, e ora piangevo, cercando di aiutarli, cercando di impedire al mio sguardo di saperli a memoria.
di Claudia Stanghellini