Nomadland. Un racconto d’inchiesta
Sebbene si fosse sempre considerata una “che seguiva le regole”, aveva cominciato a temere che, anche se avesse osservato tutti i dettami della società per vivere un’onesta vita borghese, non avrebbe avuto alcuna garanzia di stabilità.
Quando il sogno americano si infrange contro la realtà, la villetta con la staccionata bianca, il giardino e la cuccia per il cane si trasformano in un incubo: le bollette da pagare, le rate del mutuo, le tasse incombenti, e i soldi non bastano. I risparmi e i fondi di emergenza sono stati usati per i debiti scolastici e le spese mediche, i sussidi sono minimi o inesistenti. Che fare?
Linda May ha 64 anni, due diplomi in costruzioni e una lunga lista di lavori sul suo curriculum. Per una serie di sfortunati eventi non è riuscita a mettere da parte abbastanza denaro per andare in pensione e l’età è un grosso impedimento per la ricerca di un impiego stabile. Anche la famiglia della figlia ha problemi economici e il massimo che può metterle a disposizione è un divano in una casa dove, in una cabina armadio, è già stata ricavata la cameretta per la nipote. Linda non vuole vivere così, perciò si sforza, compra una piccola roulotte, la battezza Squeeze Inn e la rende la sua nuova casa.
Nomadland. Un racconto d’inchiesta (Edizioni Clichy, 2020) narra la storia di tanti sogni americani infranti, rimessi insieme con la colla, pneumatici rattoppati e tendine su misura per finestrini di furgoni e automobili.
L’autrice, Jessica Bruder, è una giornalista statunitense che si occupa di sottoculture e vite ai margini. Nel 2015 ha vinto il premio Aronson per il giornalismo sulla giustizia sociale, e nel 2017 Nomadland è stato insignito del Barnes & Noble Discover Award.
Per dare vita a questo libro, Bruder ha vissuto per alcuni mesi su un camper e un furgone soprannominato Van Halen, seguendo da vicino la vita di donne e uomini in età da pensione che abitano nei loro mezzi di trasporto e si spostano da un lavoro sottopagato a un altro: dalla faticosa raccolta delle barbabietole all’avventurosa gestione di campeggi all’aperto, all’usurante e alienante impiego presso i magazzini di Amazon. Coloro che hanno rinunciato quasi a tutto, comprimendo la propria vita in pochi metri quadri, riempiono scaffali di inutili cianfrusaglie di plastica destinate agli americani benestanti per ore e ore, senza fermarsi e camminando per chilometri sul cemento dei magazzini, sollevando contenitori, piegandosi, arrampicandosi.
Molti dei lavoratori che ho incontrato negli accampamenti di Amazon facevano parte di una fetta demografica che negli ultimi anni è cresciuta a una velocità allarmante: americani di età avanzata con mobilità verso il basso. […] Questo significa niente riposo per chi invecchia.
Sembra ed effettivamente è una storia drammatica, non soltanto per le persone che la vivono, ma anche per il fallimento di tutta una società che dimostra. Tuttavia il pensiero positivo costituisce il motore del racconto e delle case su ruote: Linda May sta lavorando sodo con lo scopo di mettere da parte abbastanza soldi e comprare finalmente un terreno, costruirsi una casa autosufficiente fatta di copertoni di pneumatici e cisterne per la raccolta di acqua piovana, dove finalmente poter riposare e godersi l’agognata pensione.
Dalla tragedia di doversi trasferire su un autocarro Chevrolet, Bob Wells scopre la felicità di creare una nuova comunità su ruote. Quando si era trasferito sul suo mezzo, alle spalle un divorzio difficile e sulle spalle 30.000 dollari in debiti, pensava di aver toccato il fondo, ma nel giro di poco si è reso conto che della vecchia vita non gli mancava nulla. Ha creato CheapRVLiving.com, blog in cui scrive e raccoglie consigli utili per trasferirsi in un veicolo. Attraverso internet ha raggiunto tantissime persone costrette ad affrontare situazioni simili alla sua e quello spazio virtuale si è trasformato in una occasione di incontro reale: il Rubber Tramp Rendezvous.
L’RTR invernale, organizzato su un’area demaniale nel deserto vicino Quartzsite, in Arizona, per due settimane a gennaio, dava ai nomadi un’occasione per condividere abilità e storie, socializzare e fare da mentore ai neofiti di quello stile di vita.
Le storie di vita si snodano sulla strada, sulle pagine e presto nelle sale dei cinema (il 4 dicembre negli USA, per l’Italia non c’è ancora una data ufficiale): Nomadland, diretto da Chloé Zhao e con protagonista l’attrice premio Oscar Frances McDormand, ha vinto il Leone d’oro al miglior film alla 77a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Chi come me frequenta assiduamente la letteratura americana troverà tra le pagine di questa inchiesta tanti suoi aspetti calati nella realtà: la fuga verso ovest e verso la libertà di Kerouac e la vita sulla strada e per strada molto romanticizzata, la disperata determinazione dei personaggi di Furore di Steinbeck, in viaggio per sopravvivere, ma anche l’ipocrisia dell’America borghese denunciata da John Williams in Stoner e da Philip Roth in Pastorale americana, quell’America che lavora una vita e si affanna senza mai chiedersi se vale la pena essere infelici una vita per potersi riposare, forse, qualche tempo prima di morire.
Con gli occhi arrossati, trovano dei posti in cui accostare e si riposano. Nei parcheggi dei Walmart. In tranquille stradine di periferia. Nelle aree di servizio, cullati dalla ninnananna dei motori in folle. Poi alle prime ore del giorno – pima che chiunque se ne accorga – ritornano sulla strada.
Forse i lati positivi che gli abitanti della strada trovano nella vita da nomadi, la libertà e le amicizie, sono solo un palliativo e una facciata che serve a nascondere l’orgoglio ferito da fallimenti e povertà, tuttavia sono realtà concrete per cui vale la pena vivere, non come una casa che si abita ma non si possiede perché non si finiranno mai di pagare alla banca le rate del mutuo.
Continuando a guidare, sono forti di questa consapevolezza:
L’ultimo luogo libero d’America è un parcheggio.
di Elena Garbarino