“Il mio nome è Mostro”, il primo romanzo di Katie Hale
Mostro è sempre nome proprio
La mia storia comincia in questo momento. Con me, seduta accanto a una finestra, su un’isola bloccata dal ghiaccio, l’unico essere umano rimasto. Dico che la mia storia comincia qui perché, come si sa, ogni fine è sempre una sorta di inizio. Lo dico anche perché prima di restare sola non esisteva nessuna storia […] Adesso l’intero mondo è la mia storia.
My name is Monster di Katie Hale è da poco uscito nella traduzione italiana di Carla Maggiori per Liberilibri. In questo racconto distopico veniamo letteralmente scaraventati in un mondo senza tempo e confini, né possibilità di redenzione, dove la protagonista è ciò che rimane della vicenda umana; proprio per questo, il lettore dovrà affidarsi ai suoi ricordi per capire come mai l’umanità si sia estinta.
Camminare è l’unica attività che scandisce il calendario della sopravvivenza della protagonista, una donna che attraverso il flusso dei suoi pensieri ci permette di cogliere il senso della sua esistenza.
Mio padre mi chiamava Mostro. L’idea era che fosse una cosa spiritosa, credo, una specie di scherzo affettuoso. Quando diventai più grande, mia madre cercò di cambiare il nome, ma ormai mi si era fissato addosso […] Penso che ci voglia un mostro per sopravvivere quando nessun altro ci riesce.
L’intero romanzo si svolge in una tensione costante tra passato e presente, dove l’attualità della sopravvivenza si mescola con il bisogno di trovare una continuità con il passato; non c’è spazio per il futuro, non c’è posto per la speranza. Ogni esperienza è stata per la protagonista una lezione propedeutica alla catastrofe.
Durante la Guerra e la Malattia che la seguì, molte persone concessero troppa fiducia alle persone che amavano. Ma la sopravvivenza ha un costo. Ha sempre avuto un costo, e questo costo è lo stare soli, tagliare fuori gli amici e la famiglia come l’escrescenza di un tumore e cauterizzare la ferita alle loro spalle. E se paghi il prezzo maggiore, riesci a sopravvivere più a lungo, questo è il motivo per cui esisto solo io, e il motivo per cui devo continuare a camminare.
Nessun contatto umano, né prima della tragedia, né dopo; il fine è la nuda sopravvivenza, mai la vita. Eppure, nel suo vagabondare in cerca di provviste e pace, la voce narrante sembra tradire una malinconia, una sorta di rimpianto per non aver saputo – o forse potuto – vivere accanto agli altri.
Continuo ad aspettarmi di incontrare qualcuno. Non c’è più nessuno, ma continuo ad aspettare qualcuno.
Lei è Mostro, si è cucita addosso questo nome, l’ha performato fino a diventare un tutt’uno con il suo corpo. Non potrebbe che chiamarsi così: era mostro rispetto ai suoi compagni di classe, a sua madre, ai canoni estetici, e ora che non c’è più nessuno al mondo è Mostro per sé stessa. Mostro nelle due varianti di nome proprio e sostantivo rivela – come suggerisce l’etimo della parola stessa – un “prodigio”, ma denota anche un isolamento, uno scollamento rispetto al tempo e al luogo in cui si vive; è per questa ragione che Mostro sarà l’unica a sopravvivere, grazie alla sua inadeguatezza iniziale.
Tuttavia, se la prima parte del libro ci racconta la prospettiva di una donna isolata, la seconda parte si apre con la ritrovata possibilità di un contatto umano.
Questa creatura è una ragazzina. Un giovane essere umano denutrito e scheletrico. Non dovrebbe esistere. Non può esistere. Una ragazzina che in qualche modo sia sopravvissuta alla Guerra, alla Malattia e all’Ultima Caduta. Una ragazzina che ha resistito.
Dall’incontro i nomi muteranno, come le voci narranti; Mostro deciderà di chiamarsi Madre e cederà il suo vecchio nome, come fosse un amuleto portafortuna, alla nuova arrivata, che nei capitoli successivi farà da narratrice all’intera vicenda, secondo il suo punto di vista.
Sarò sua Madre, e lei sarà il mio Mostro.
Katie Hale ha avuto il coraggio di affrontare temi cruciali in un romanzo psicologico appassionato quanto disorientante; scritto nel 2019, Il mio nome è Mostro tocca aspetti fondamentali del nostro presente: la crisi climatica, le categorie sociali, le scelte etiche di ognuno di noi, l’incompetenza politica, ma soprattutto pone al centro della vicenda due donne, in un momento storico dove c’è davvero bisogno di togliere al corpo femminile l’alone di debolezza e incompetenza che, troppo spesso, rischia di farlo soffocare.
I mostri, creature quasi sempre maschili, feroci e pressoché immortali, sono ora dimenticati, non esistono. Quando nel racconto le due donne si incontrano, l’una cede all’altra il suo nome: Mostro è sempre nome proprio. Non esiste mostruosità senza storia, norme e giudizi morali; c’è solo un Mostro che di volta in volta reclama il suo spazio come soggettività, parlando al lettore secondo le sue esperienze.
Non a caso Mostro è sempre immerso nella natura in un modo a noi sconosciuto. Si presenta come un rapporto che ricorda il vivere hobbesiano, con la carne esposta ai pericoli, che riesce però a far emergere il senso della cura e della tensione reciproca tra viventi.
Per quanto si tratti di un romanzo dalle tinte spente e apocalittiche, Il mio nome è Mostro offre un’ottima chiave di lettura per approcciarsi alla condizione contemporanea. Non a caso l’autrice si sofferma molto nel sottolineare i pericoli delle scelte personali e del vivere comune, lasciando intendere chiaramente i limiti della tecnologia.
Stavano tanto vicine ai cosiddetti cari da permettere che alla fine questo li uccidesse.
Nonostante Hale non potesse sapere della pandemia in corso, il libro rimane un invito a ripensare il nostro modo di vivere, un’esortazione che se fosse un monito – rubando le parole all’autrice – suonerebbe così: «La sopravvivenza porta via tempo». Ci ricorda di rallentare, di essere accurati e minuziosi nelle nostre scelte, collettive e personali.