(Anche) questa è l’America: appunti sparsi su “Il cielo è dei violenti” di Flannery O’Connor
Il mondo è stato creato per i morti. Pensa a quanti morti ci sono. Ci sono milioni di morti in più dei vivi e i morti rimangono morti milioni di anni in più di quanto i vivi restino vivi.
Quando si parla di letteratura angloamericana il rischio è di lasciare che i grandi nomi come quello di Philip Roth, o Don Delillo, oscurino tutto ciò che è fiorito intorno a loro, prima e dopo. L’idea di letteratura statunitense che si è plasmata nell’immaginario comune è figlia di una mentalità che negli ultimi anni si è cercato sempre più di decostruire.
Senza voler negare il valore degli scrittori maschi, bianchi, eterosessuali e nordamericani, che hanno dato un contributo innegabile a una letteratura tra le preferite di molti, la tendenza è quella di riscoprire le diverse voci di un panorama variegatissimo.
È in questa linea che si colloca la nuova edizione del romanzo Il cielo è dei violenti di Flannery O’Connor, uscita quest’estate per minimum fax nella traduzione di Gaja Cenciarelli. A sessant’anni esatti dalla sua prima pubblicazione, il testo di O’Connor è ancora incredibilmente vivido e lucido nel parlare di un’America che spesso passa in sordina, ma che è vera, allora come oggi.
Il protagonista di Il cielo è dei violenti dovrebbe essere Francis Tarwater, ma nei fatti è Dio, un Dio uscito direttamente dall’Antico Testamento, che non consola e non è misericordioso, ma è anzi quello che ordina a Abramo di uccidere Isacco e che ha bruciato Sodoma e Gomorra.
Francis ha un prozio, Mason, ossessionato dalla religione e uno zio maestro, Rayber, che ha fatto dell’emancipazione dalla stessa religione del profeta una ragione di vita. Tutto quello che Tarwater ha imparato, però, lo ha imparato dal prozio profeta. Quando il prozio muore non gli resta che tornare alla civiltà, dal maestro, e da suo figlio, Bishop, che non è mai stato battezzato. Ma il ritorno a casa di Tarwater assume le sembianze di una missione divina che ha ricevuto in eredità dal prozio profeta, morto prima di compierla.
Tutto il libro di O’Connor è impregnato di una simbologia che a un primo sguardo ricorda quella cristiana. O’Connor stessa è stata, in vita, una cattolica fervente. Mai un vacillamento. Voleva essere una santa, ma «in modo intelligente». Stupisce senz’altro che da una donna così certa della propria fede sia venuto un libro con una visione tanto cruda della religione: Il cielo è dei violenti è un romanzo cattivo, alcune definizioni lo vorrebbero per soli atei. Non è per atei, forse, anche se l’idea di religiosità che pervade il libro ricorda più le punizioni subite dal popolo ebraico al tempo di Mosè che non la fede consolatoria della quale parla il cattolicesimo.
Se Mason è una figura resa inavvicinabile dalla sua fede delirante, Rayber è il suo diretto opposto. Più che un romanzo sull’integralismo religioso, Il cielo è dei violenti è – e lo dimostra con brutale chiarezza – un romanzo dove il fondamentalismo si presenta in varie forme, tutte deprecabili. Tanto quanto il profeta, il maestro è il simbolo incarnato di una visione della realtà rigidamente razionalista; dice di essere rinato, esattamente come il profeta auspicava quando lo battezzò a tradimento, ma di averlo fatto «nel modo naturale, con i sacrifici e con l’intelligenza». Non è questo modo naturale di cui parla a rispondere alle sue domande, però, né lo fanno i sacrifici e l’intelligenza.
Il battesimo è solo un atto vuoto. Se veramente esiste un modo per rinascere, è quello di essere fedeli a sé stessi, è la comprensione di sé alla quale si arriva dopo molto tempo e forse con grandi sacrifici. Non è una cosa che si riceva dall’alto versando qualche goccia d’acqua.
È uno scontro tra due posizioni antitetiche. Se c’è una cosa che appare chiara leggendo il libro di O’Connor, è che nessuna visione unilaterale salverà l’uomo. Eppure, non è dei tiepidi il regno dei cieli, è di coloro che sono pronti a tutto. Tarwater, il prozio Mason. Non il maestro, che – nonostante ci abbia provato – non è riuscito a portare a compimento ciò che si era prefisso, non è mai stato strumento nelle mani di Dio. Avrebbe potuto esserlo, ma la razionalità ha prevalso. E il cielo non sarà suo.
Tra gli aspetti più convincenti di questo libro conto la fitta trama di elementi carichi di una simbologia a metà tra il pagano e il religioso che attraversa tutto il romanzo; i più evidenti sono il fuoco e l’acqua. Presente fin dall’inizio, il primo elemento torna seguendo un percorso circolare alla fine del libro, simbolo di purificazione ed emancipazione, invocato dal prozio ma usato per i propri scopi solamente da Tarwater, che attraverso il fuoco distrugge e ricostruisce.
L’acqua compare a più riprese. Per quanto il suo significato sia sempre quello di purificazione, in associazione a quello del battesimo di cui il prozio ha fatto un’ossessione, qui non c’è nulla di salvifico.
L’acqua, più che il fuoco, è strumento di morte; non solo lava via il peccato: elimina tutto alla radice.
Il sud degli Stati Uniti di cui O’Connor si fa narratrice è violento, crudele, ma è anche incredibilmente vero e palpitante. Prima del McCarthy di Non è un paese per vecchi, e prima dei fratelli Coen, Flannery O’Connor ha scritto un libro attentissimo agli aspetti sociologici e culturali di una fetta d’America che, anche se fuori dagli Stati Uniti non è molto nota, esiste e ha qualcosa da dire. «Si scrive e si deve sempre scrivere di ciò che si conosce, ma per farlo è necessaria una storia di portata mitica, una storia che appartenga a tutti», ha detto l’autrice. E la felicità?, si è chiesto Marco Missiroli nella prefazione. Quella, la felicità, non è il fine ultimo della vicenda; stavolta il premio è la salvezza.