Culturificio
pubblicato 4 anni fa in Recensioni

Lo Stato del Realismo contro Angela Carter

Scrivo prosa eccessiva, melodrammatica, autoindulgente – e, allora, cazzo?

Lo Stato del Realismo contro Angela Carter

Se mentire è l’attività della mens, dell’immaginazione e dello spirito, ponderata fabbricazione e trasmissione del fittizio, Angela Carter sta mentendo.

Riunita in due volumi intitolati Nell’antro dell’alchimista – in originale Burning Your Boats, il secondo appena tornato sugli scaffali per Fazi Editore –, la sua produzione breve rinnega ogni pretesa di realismo: la superficie si spacca, i lembi si ritirano e da alternative di realtà emergono esperienze caleidoscopiche, frammentate, inafferrabili, sempre cangianti.

Esploratrice di sottocorrenti, per conservare «nuovo vino» Carter sceglie «vecchie bottiglie» e il contenitore più adatto alla liquidità postmoderna è uno tra i più antichi, il “racconto” – impropriamente e, quindi, tra virgolette: la nostra lingua non descrive bene una forma che non è storia, fiaba o novella, ma fucina dove fondere segno e senso. Ma come il fantastico non è estraneo alla cultura italica, anche la nostra critica ne avverte i contorni irregolari in opposizione alla short story: Gianni Celati nella prefazione a Storie di solitari americani accenna a una forma prismatica che si inarca dal quotidiano fino al sovrannaturale, sfuggendo agli ingannevoli confini del verosimile in cerca di meraviglia, straniamento.

Il tale.

La veste delle storie di Poe e Hoffmann: «Parlano direttamente il linguaggio dell’inconscio: gli specchi; la proiezione del sé […]. Il tale non riporta l’esperienza quotidiana come fa la short story, ma la interpreta attraverso un sistema di immagini tratte dalle aree a essa sotterranee, e quindi […] non può tradire i propri lettori consegnandoli a una falsa conoscenza dell’esperienza quotidiana» scrive Carter nella postfazione a Fuochi d’artificio, la sua prima raccolta.

Etimologicamente legati al disvelamento di ciò che è detto in segreto, ma prima ancora all’atto stesso del parlare, nei tales di Carter è perfettamente chiara la sua voce inaffidabile, persino quando sembra tacere: le pittoresche narrazioni, con le loro caricature, mostrano deliberate incongruenze che costringono a rimanere in sensi; sublimi, vertiginosi salti dal bello all’abietto infrangono il godimento passivo; i personaggi sono attori di carne e cerone su un palcoscenico finito. La dominatrice del fantastico inglese risponde alle tracotanti, pavide aspirazioni realiste allora e ancora tanto di moda ballando sopra i loro corpi vecchi e noiosi, lacerando la volontaria sospensione di incredulità con la sua penna.

Carter, però, non rifugge il mondo in escapistico esercizio di stile; esponendone l’ossatura, tenta di renderlo più comprensibile attraverso l’alterazione: conduce fino al sacrum di una realtà profondamente profana e profanata – la nostra – rendendola, in potenza, modificabile.

Non a caso gli otto tales di Venere nera, la raccolta del 1985 che apre il nuovo e ultimo volume di Nell’antro dell’alchimista, ruotano sull’asse della biografia e, come anche i suoi romanzi, hanno eco autobiografiche: seguono lʼevoluzione umana di Carter e la inseguono nell’esplorazione del globo. Perché, come afferma lei stessa, la sua fiction prende sempre le mosse dall’esperienza, che è continua evoluzione e cambiamento tanto su larga scala quanto personale.

Venere nera si regge sul trittico biografico formato dal tale omonimo, da Il gabinetto del dottor Edgar Allan Poe e Delitto con accetta a Fall River. Ma il fatto storico viene sconfitto dall’alternativa fantastica,distorto da una lente mistificante: Carter avvicina la Venere nera Jeanne Duval, lʼamante di Baudelaire, alla bruna dama di shakespeariana memoria; la immagina sopravvissuta al poeta, infine lontana dalla sifilitica Europa color malva e grigio, prospera e ossequiata ai Caraibi col nome di Mme Duval. Fantastica poi, tra smaterializzazioni e denti nascosti sotto le gonne della signora Poe, sulla vita del celebre maestro del terrore, che si impasta ai cicli del teatro e riporta infine l’allucinata e minuziosa cronaca, ossessiva e volutamente falsata, del celebre duplice omicidio Borden.

Il trittico è concluso già nel 1980. In particolare gli ultimi due tales sono influenzati dal soffertissimo soggiorno a Providence durante l’incarico alla Brown University, non lontana dall’insanguinata Fall River: nella disprezzata America eccezionalista, aliena, oppressa e oppressiva, violenta; l’affascinante, giovane e luccicante America che si fa quasi personaggio, simbolo e segno di uno sfruttamento importato. Uno specchio puntato sul vecchio mondo che sarà grande protagonista più avanti.

«La nostra carne ci arriva dalla Storia» afferma Carter, acutamente consapevole delle piaghe virulente che i colonizzatori hanno trasmesso al nuovo mondo vergine ma corrompibile. Guarda il passato a volo d’uccello, comprendendo come la supremazia di certi miti sociali venga da significati e valori infusi artificialmente, arbitrii che solo una volta smascherati possono essere erosi.

Si tratti di un poeta roso dalla sifilide, di una coppia religiosa mossa da una dubbia carità, di un padre malato di avarizia: di fronte al selvaggio e allʼindomato, l’Occidente e le sue incarnazioni rivelano un nocciolo purulento, stretture mentali claustrofobiche.

I colonizzati, anche se corruttibili, si alleano contro il nemico invasore, capitalista e moralista. In prima linea le donne, portatrici dellʼindividualista femminismo cartiano basato sullo smascheramento del dogma che le vuole assoggettate all’uomo: allora la musa creola appallottola i componimenti dell’artista e li getta nel fuoco; Nostra Signora dei Massacri, sorta di invereconda e irredenta Moll Flanders, diventa una sposa pellerossa diffidente verso gli ex compatrioti; una giovane strappata bambina alla società trova il proprio posto tra schiere lupesche.

I personaggi femminili di Carter non sono sante né dannate, ma duttili e intraprendenti. Mai vittime inermi della violenza e della paura maschile per i misteri intuiti tra le labbra dischiuse della vagina, mostrata e usata dalla donna con naturale indifferenza – un terrore temporaneamente superato solo quando cadono le mitologie e il diverso per anatomia viene riconosciuto come uguale nello spirito.

Al bisogno, queste donne diventano egoiste e letali. Lʼemancipazione femminile, come il passaggio all’età adulta, del resto è una faccenda di sangue. Sfoderano gli artigli, o affilano le lame:

«Lizzie Borden con l’accetta

Quaranta colpi al padre

Diede in tutta fretta

E quando capì cosa aveva fatto

Quaranta e uno alla madre,

Stessa arma, detto fatto».

*****

Miss Borden – ora la piccola Lizzie: anni quattro, «severa e ritta, un tozzo rettangolo di bambina» – scappa dall’asfissiante casa in Ferry Street di Delitto con accetta a Fall River e salta nel passato quasi mitico di un’infanzia senza ascia, diretta al circo che fa tappa in città, nel racconto Lizzie e la tigre, che apre la seconda raccolta e la successiva metà di Nell’antro dell’alchimista.

Lizzie è una delle creature della mitologia americana – e non solo – radunate dalla morente Carter: «Tutte insieme, dovrebbero formare un sottile volume da intitolare American Ghosts and Old World Wonders». Fantasmi americani è uno degli ultimi lasciti letterari di Carter: raccolta postuma – uscita nel 1993, un anno dopo la sua morte – di lavori brevi su miti, leggende e meraviglie del vecchio mondo e del nuovo ancora non antologizzati o miracolosamente inediti. Sette storie, nel piano originale. A queste cartoline dai due continenti – Carter ha vissuto negli Stati Uniti ma è cittadina britannica, nata a Eastbourne –, l’amica ed esecutrice letteraria Susannah Clapp aggiunge altrettanti pezzi: il western-satanico Un fucile per il Diavolo, figlioletto bastardo nato dalla passione dell’autrice per il singspiel, e Le navi fantasma, tale-transatlantico che unisce Continente Antico e Americhe.

L’avvertimento, viaggiatori, in questa raccolta risuona ancor più chiaro: nel nuovo mondo non c’è mai davvero nulla di troppo nuovo e i novelli paesaggi d’America sono solo diverse scenografie su cui rappresentare i soliti drammi umani.

Nihil novum sotto il «cielo smisurato» del selvaggio West: uomini e donne che commettono orrori fordiani e goethiani; incestuosi, sgualdrine e banditi, vendicatori senza amore, squallidi bugiardi che recitano storie per un morboso pubblico pagante.

Fantasmi raccoglie molti temi carteriani, già narrati. decostruiti e rinarrati nei precedenti lavori: il multiforme mondo dello spettacolo e la messinscena umana; il genere e i suoi stereotipi; la metamorfosi; il folklore, il mito e lo sbeffeggio religioso; le risate, l’ironia e la parodia. Anche il Continente Nuovo Carter l’ha (re)immaginato nei romanzi e in altri tales, l’ha fatto già incontrare col Vecchio grazie agli spostamenti dei suoi personaggi – non è ancora lontana la fine delle avventure di Jeanne Duval e Nostra Signora dei Massacri.

Fantasmi è un’andata e ritorno tra i due continenti e tra passato e futuro, con alcune tappe nel presente. Ancora più di Venere nera, è anche l’itinerario di Carter – la prima visita agli Stati Uniti è nel 1969, quando era ancora una donna abituata ad accontentarsi dei frutti più piccoli: lo racconta in Patchwork, uno dei tre scritti sfusi a fine volume.

Nell’edizione originale, la divisione tra prima e seconda parte contrappone esplicitamente Americhe ed Europa: ma, ancora, dietro l’illusione degli opposti c’è un forte gioco di specchi e l’assenza di questi divisori, nell’edizione Fazi, rende più fluido l’intero viaggio.

La piccola Lizzie Borden è nata nel New England, tuttavia discende dalla gente del vecchio mondo e di quelle origini ha mantenuto «mascelle affilate» e «occhi calvinisti celeste pallido». In Peccato che sia una puttana i fratelli pionieri Johnny e Annie-Belle recitano la medesima parte tragica scritta per i loro alter ego parmigiani Giovanni e Annabella, ben oltre tre secoli prima, dal giacobita John Ford. Anche Un fucile per il diavolo è ambientato nel Far West, ma è il vento che spira da un distante paese a mettere in moto il dramma faustiano. Uno studente londinese di cinema va alla ricerca del sacro Graal di Hollywood ne Il mercante di ombre. Le navi fantasma sono il ponte tra le due sezioni della raccolta con il loro carico dalla vecchia, cara Inghilterra che raccomanda ai coloni di vivere più gioiosamente, come i tre spiriti del Natale tentano ravvedere l’arcigno Scrooge. Twankey è stancə di guardare dall’Empireo il The Late Show e migra a Mimolandia: terra madre della pantomima, dalla gioia ancora pagana, una Disneyworld antica dove ci si traveste da animali e si cambia sesso con facilità, ci si esprime a doppi sensi e nessuno si scandalizza. Gli scritti che chiudono la raccolta sono fiabe e storie di donne del vecchio mondo, che ripropongono le vicende di Cenerentola, Alice e Maria Maddalena sbarcata in Francia.

Ancora più chiaramente che in Venere nera, è impossibile non leggere quanto Carter appassionatamente disdegni e sotto sotto subisca il fascino della grande nazione a stelle e strisce: «Una cultura così priva di sensualità che mi riesce difficile lavorare qui», ma anche il cinema e gli ideali di libertà che «il paese non ha mai, mai completamente rinnegato» nonostante tutto.

La sua penna gioca naturalmente per contrasti, associa i limiti morali ed etici del perbenismo colono alla finzione delle feste e dello spettacolo, pur con tutti i loro trucchi reali e sinceri; in pieno spirito carnevalesco, evita l’uniformità, è eclettica, sfarfallante. Repentina l’alternanza di punti di vista, come i cambi dʼinquadratura, la metanarrazione, la coesione audace di più forme narrative e di non-fiction. L’incontro di diversi generi associati a una pluralità mediale che viene superata nonostante il supporto fisico dell’oggetto-libro. E poi omaggi, citazioni dirette e indirette che distraggono il lettore più (in)formato.

Indubbiamente, una regista diegetica: se David W. Griffith trasformò il cinema in opera narrativa, Carter fa della narrativa (anche) uno spettacolo. Che sia una nuova tragedia fordiana, con copule proibite e fucili carichi; il circo con i suoi «odori inattesi, e […] rumori mai-sentiti-prima», dove la prossimità fa rima con “promiscuità” o un Carnevale-orgia di immagini e subordinate.

Nel vortice della pantomima ballano identità sessuale e sesso (dall’incesto al transgenere), con ammirevoli implicazioni e considerazioni antropologiche mai accademiche. Perché a Carnevale e nelle commedie si sbeffeggia il vecchio, si infrangono le regole, e Carter deride con gusto l’ottusa religiosità mandando all’aria gli stereotipi di genere.

Carter supera, insomma, la semplice riscrittura: è dio femmina che reimmagina la vita, Bacco, Amore, è – secondo Salman Rushdie – «un Raggio della limpida Fontana del Giorno Eterno». Come Cristo che ha lasciato presto questo mondo, anche lei ora è nell’alto dei cieli, «là fuori […] nella Letteratura».

A noi restano le sue parabole feroci ed eleganti contro le costrizioni della morale, il miracolo triste di aver moltiplicato le visioni più dei pani e dei pesci senza grandi riconoscimenti in vita, vittima in croce della folla che acclama il realismo.

di Lucrezia Pei e Ornella Soncini