“Fontamara”: un romanzo di formazione sociale
È curioso pensare che meno di vent’anni separarono, all’inizio del secolo scorso, il soggiorno di Thomas Mann e quello di Ignazio Silone nei sanatori della località montana di Davos, Svizzera. Il primo vi andò a visitare la moglie malata e ne trasse ispirazione per la stesura della Montagna incantata; il secondo vi trascorse i mesi della scrittura del suo capolavoro: Fontamara.
Prendiamo in analisi i due testi legati, in un modo o nell’altro, al soggiorno a Davos. Da un lato l’uso generoso eppure fine della lingua, sulla scia del grande epos del romanzo europeo otto-novecentesco, del Premio Nobel 1929; dall’altro il racconto schietto, crudo, eppure tanto vivido di Silone, in cui Jacob Wassermann trovò «una semplicità e grandiosità omerica». Persino i personaggi sembrano diametralmente diversi: l’alta società sfaccendata d’Europa nella Montagna incantata; la popolazione di «un antico e oscuro luogo di contadini poveri della Marsica» in Fontamara.
Eppure un’affinità c’è, ed è evidente: perché, se è giusto ricordare il romanzo di Mann come l’esempio par exellence del Bildungsroman tedesco, Fontamara, ingiustamente poco apprezzato tra i lettori italiani, merita una posizione di assoluto rilievo nella tradizione italiana del romanzo di formazione. D’altronde, «parlare della fortuna di Ignazio Silone significa ricordare l’inaudito divario che per un ventennio separò la critica italiana da quella del resto del mondo», come si legge nell’introduzione all’edizione Mondadori del 2016. Malvisto in patria sia dalla sinistra sia dalla destra di cui, in epoca fascista, era stato acerrimo nemico, Silone si rassegnò a vivere come «socialista senza partito e cristiano senza chiesa». Forse per questo, quando, a quattordici anni dalla prima pubblicazione – avvenuta a Zurigo, in lingua tedesca –, nel 1947, Fontamara uscì in Italia, ad accoglierlo fu una critica riduttiva e distratta, se non addirittura sprezzante.
All’estero, invece, pubblicato in tedesco e in inglese negli anni che precedettero la Seconda Guerra Mondiale, il romanzo era presto diventato un caso letterario. Tuttavia, pensare che fosse stato soltanto l’impegno politico di Silone a provocare l’apprezzamento del pubblico europeo significherebbe sminuire il valore letterario del testo. E, tornando alle considerazioni sul genere del Bildungsroman, sarebbe ancora più ingenuo crederlo se si tenesse a mente che il romanzo aveva suscitato l’entusiasmo di figure centrali del mondo culturale germanofono. Tra queste Stefan Zweig e, guarda caso, lo stesso Thomas Mann.
Fontamara, del resto, è un romanzo di formazione; ma un romanzo di formazione che trasuda l’impegno sociale e politico del suo autore. È sì la storia della crescita di un individuo, ma soprattutto la storia dell’evoluzione di una comunità. Una comunità formata in buona parte da «cafoni». Per intuire il significato di questa scelta lessicale, tanto efficace – soprattutto dal punto di vista sonoro – quanto curiosa, è necessario leggere la Prefazione, dove l’autore scrive che:
La scala sociale non conosce a Fontamara che due piuoli: la condizione dei cafoni, raso a terra, e, un pochino più su, quella dei piccoli proprietari.
E poi, in risposta alle perplessità facilmente sollevate dal lettore:
(Io so bene che il nome cafone […] è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore).
Fin dalle prime pagine, Silone chiarisce che si tratta di un romanzo legato a una piccola comunità fondata sulla coltivazione della terra, contraddistinta dalla «solita miseria: la miseria ricevuta dai padri, che l’avevano ereditata dai nonni, e contro la quale il lavoro onesto non è mai servito proprio a niente». Una terra, dunque, sempre uguale a sé stessa, che ha in ogni epoca prestato il fianco ai peggiori soprusi: «Le ingiustizie più crudeli vi erano così antiche da aver acquistato la stessa naturalezza della pioggia, del vento, della neve». L’ultima, a opera del ricco e spregiudicato borghese detto l’Impresario, è la deviazione del Fucino, un fiume da cui i fontamaresi traggono sostentamento. Da questa vicenda, nella quale i contadini, ingenui e ignoranti, si trovano ingannati con un accordo informale che prevede una spartizione di “tre quarti” dell’acqua a ciascuna fazione, prende le mosse il romanzo. «Fontamara», scrive l’autore,
somiglia dunque, per molti lati, ad ogni villaggio meridionale il quale sia un po’ fuori mano, tra il piano e la montagna, fuori dalle vie del traffico, quindi un po’ più arretrato e misero e abbandonato degli altri. Ma Fontamara ha pure aspetti particolari. Allo stesso modo, i contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin, i coolies, i peones, i mugic, i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo; sono, sulla faccia della terra, nazione a sé, razza a sé, chiesa a sé; eppure non si sono visti due poveri in tutto identici.
Coerente con le premesse anticipate nella prefazione, l’autore narra la storia di una piccola comunità come molte altre e denuncia i soprusi inflitti dal fascismo nei confronti della sua popolazione. È chiaro che la trama sia strettamente legata all’esperienza biografica di Silone, esule travolto dal dolore per la perdita del fratello, torturato e ucciso dai fascisti nel penitenziario di Procida.
Per «raccontare la verità sui fatti di Fontamara» Silone si avvale di tre narratori. Secondo quanto afferma nella prefazione, infatti, si limita a riportare i racconti di una piccola famiglia fontamarese in cui un giorno s’è imbattuto sulla soglia della sua dimora svizzera. Narratori sempre interni, dunque, e diversi: una coppia di genitori e il figlio, coinvolti – seppur in modo marginale – nella trama, che raccontano con voci alterne. L’artificio letterario permette a Silone anzitutto di fornire sulle vicende narrate uno sguardo caleidoscopico, quasi ubiquo, perché rivolto là dove c’è l’uno, ma non gli altri. Poi, di non forzare la storia alle proprie esigenze narrative, lasciando che si svolga del tutto autonoma, e viva, vera, al di fuori della prospettiva narrante, così mutevole.
L’apice di tale tecnica è raggiunto quando uno dei narratori ammette di essersi addormentato nel corso di un importante dialogo di cui era uditore, annunciando così una lacuna nella trama principale del racconto. Da questo passo si può dedurre che il sonno rivesta anche il ruolo metaforico che gli è storicamente attribuito, denunciando la condizione della quasi totalità dei personaggi del romanzo. L’omertà, l’egoismo, l’ingenuità, l’incapacità di individuare “amici” e “nemici”: il sottosuolo sociale che popola Fontamara è, infatti, un campionario di esclusi e di ignoranti, e di esclusi perché ignoranti – e poveri. Perciò l’intero romanzo può essere riassunto nel percorso di una comunità che prende coscienza della propria condizione e si arma per cambiarla.
Prima di coinvolgere l’organismo della società unita, tuttavia, l’evoluzione si verifica nel protagonista: Berardo Viola, un «cafone» impulsivo e spregiudicato, senza terra e senza famiglia, orfano di un padre morto in carcere. Per Berardo, che «credeva al diavolo, ma non alla Madonna», la madre predice un destino analogo in una nenia che denuncia l’affinità tra le credenze popolari di un Meridione arretrato e la prospettiva di sventura familiare rappresentata nella tragedia greca. Così come accade spesso all’eroe tragico, ancora, l’antefatto che consente al protagonista il dispiegamento di una nuova prospettiva sull’esistenza è un colpo di scena netto, un trauma. In Fontamara, tuttavia, diversamente da quanto accade di solito all’eroe tragico, non è innescato dall’ira di un dio o da un destino ineludibile, ma dalla violenza di un’incursione fascista.
Descrivendone i colpevoli, Silone concilia il piglio sociologico dell’intellettuale impegnato e lo slancio lirico del grande scrittore. Da un lato, infatti, l’autore di Der Fascismus descrive la massa fascista come una sorta di categoria antropologica, soltanto di recente istituzionalizzata e dotata di una coscienza di gruppo, animata dalla violenza che sfocia nella lotta tra poveri. Dall’altro, nell’economia dell’intreccio, narra nell’incursione fascista un fatto isolato che sconvolge il paese e permette l’inizio dell’evoluzione psicologica del protagonista. In alcune delle pagine più liriche del libro, gli uomini di Fontamara vengono braccati e interrogati a proposito delle loro posizioni politiche, in verità del tutto inesistenti. Il tono stilistico oscilla qui tra il realismo drammatico delle scene e una forte impronta grottesca.
Così, alla domanda «chi evviva?» di un «omino» alla guida del «raggruppamento» fascista – che si aspetta la risposta “Mussolini” –, le esclamazioni dei paesani tingono il testo del più acuto umorismo pirandelliano. Le donne, invece, vengono violentate.
Questo episodio, con le sue conseguenze, segna l’inizio dell’evoluzione psicologica di Berardo, le cui vicissitudini s’intrecciano con la causa del Fucino e la storia di Fontamara. Cafone, è costretto ad acquistare un pezzo di terra; non ne può più fare a meno, e lo sa: per l’orgoglio, per la dignità. Tutti notano la sua metamorfosi: è evidente che ormai si disinteressi delle questioni del paese. Tra esse, la deviazione del Fucino, che rischia di far morire i fontamaresi di fame. Abbandonata la guida delle loro timide sollevazioni, non pensa più ad altro se non a guadagnarsi un pezzo di terra.
Ma per raggiungere questo scopo il lavoro dei campi non basta e deve recarsi in città, a Roma. Com’è prevedibile, d’ora in poi le sorti di Berardo Viola, divenuto pressoché un automa, saldo nella sua unica, totalizzante volontà, subiranno un cambiamento radicale. La città, metafora di un mondo di attese, uffici, sottili inganni e caos, nelle sue atmosfere più sudicie, nella natura claustrofobica dei locali chiusi, frammentata dalle pareti di albergacci e locande e dalle invalicabili sbarre delle carceri, abitata da un sottosuolo morale della peggior specie, è il luogo che segna l’evoluzione del protagonista.
Qui Berardo, in una realtà parallela a quella del suo paese, dove tuttavia la vita corre e drammaticamente si perde, smarrisce ogni volontà individuale, abbandona ogni interesse egoistico, e, con l’intervento di un deus ex machina in tardo stile tragico, veste i panni del martire per la giustizia sociale. Non è un caso, del resto, che accada a un cafone senza terra e senza famiglia; privo, cioè, delle istituzioni minori che strappano ogni fontamarese alla coltivazione di una coscienza collettiva. La lotta per la giustizia sulla questione del Fucino, l’ultimo di mille soprusi, ne risulterà rinvigorita; la fiducia, infiammata.
Sarà divelta la profonda impotenza che costituiva la debolezza della sua popolazione, consapevole di non potersi fidare né dello Stato né della Chiesa. Sarà rinnovato il suo spirito. Eppure l’autore, insieme amaro e impegnato, esule, resta sempre fedele al contesto di una realtà tragica, che è la realtà della storia. Un terreno dove, sembra dire Silone in un terribile grido di dolore, la necessità spadroneggia.
di Carlo Danelon