“La carne” di Cristò
«adesso muore solo la gente sana»
Pubblicato nel 2016 da Intermezzi e ripubblicato da Neo a fine 2020, La carne di Cristò è un romanzo zombie geniale e assolutamente sorprendente; aggiungerei anche attuale, tristemente attuale. La tragica situazione sanitaria dovuta alla pandemia infatti può fornire il destro a lettori e critici per trovare nel libro anche un traslato di questo paralizzante periodo storico. E non a torto.
Scrivevo che il romanzo in questione è sugli zombie e, precisamente, su un misterioso virus che rende chi lo contrae assetato di carne e impossibilitato a morire. Per questo romanzo l’intenzione dell’autore è precisa: nel dipanarsi della storia, oltre a raccontare e rappresentare le vicende che riguardano i protagonisti, Cristò cela sempre tra le righe anche un discorso sul mondo, aggiungendo quindi un significato ulteriore a quello strettamente letterale; i suoi zombie infatti sono connotati come mostri che conservano ancora qualcosa di tremendamente umano. Questo perché sono l’ultima frontiera negativa dell’uomo, la sua degenerazione, una degenerazione che rappresenta una società senza speranza, senza neanche la possibilità di considerare il futuro come una bellissima risorsa da plasmare. E a fare le spese di questa stasi collettiva sono soprattutto i bambini, quindi le nuove generazioni. Ecco le laconiche sentenze che dimostrano quanto sia impossibile un ritorno a una forma sana di vitalità:
non so cosa immaginino i bambini adesso
adesso muore solo la gente sana
adesso non succede niente
Il dinamismo intertestuale che si oppone all’apatica condizione del protagonista genera però un irresistibile contrappunto letterario, tanto che è difficile smettere di leggere una volta entrati nel gorgo della scrittura di Cristò. Già dalla prima pagina lo squallore grigio della realtà è opprimente: il narratore è un vecchio ancora bambino: non perché sia rimasto tale per una qualche sua virtù, ma semplicemente perché non è mai cresciuto; la sua vita è stata interrotta bruscamente quando era piccolo e dal qual momento in poi tutto si è fermato.
I miei figli li ha rubati un pitone per darli in pasto a uno zombie. E scusate se è poco.
Prima dell’epidemica mostrificazione il povero vecchio, incapace di vivere una vita vera e autentica, venera la gente:
Loro hanno vissuto per me, lavorato, baciato, incontrato, painto, amato, mangiato, corso, riso, lottato. Lo hanno fatto al posto mio e mi hanno dato in cambio la loro stanchezza (io sono la cornice perfetta di una raccolta di racconti potenziali).
Che il mondo per il protagonista non sia più come quando aveva otto anni diventa il triste leitmotiv del romanzo, dal quale sembra non ci sia via d’uscita: finché l’energia letteraria dell’autore non trova la sua più completa realizzazione nel mitico personaggio di Tancredi, protagonista di una storia all’apparenza tutta interiore e fantastica pensata dalla vecchia voce narrante, il protagonista della vicenda reale.
Lo squallido mondo pieno di zombie “esce di scena” quando si dà spazio all’eroe dell’altra storia, Tancredi appunto, un medico felicemente sposato che è alla prese con misteriosi bigliettini dai contenuti indecifrabili. Il rapporto letterario che si instaura fra Tancredi e il vecchio ancora bambino è molto ambiguo; i due arriveranno a comunicare mentalmente, da un mondo letterario all’altro, come se Tancredi diventasse il protagonista nella storia del vecchio che è a sua volta personaggio e protagonista del romanzo di Cristò.
Questi due, tre livelli che si fondono e compenetrano sono la vera forza di un libro che ha una struttura semplice e leggera, perché architettata con grande disinvoltura e padronanza, così come è semplice solo in apparenza l’immagine concettuale della carne che dà il titolo al romanzo.
Gli zombie di Cristò vivono solo per la carne, simbolo perfetto della disillusione per una realtà che si dimostra priva di prospettive. Questa consapevolezza scarica un potente contraccolpo sugli uomini, sulle nuove generazioni, su tutti gli ex bambini che non hanno più otto anni, che non vivono più, forse, in quegli anni Ottanta che potevano sembrare pieni di buoni auspici. Tutto è terribilmente ridotto, stretto stretto come un tubo, e speranze, aspettative passano attraverso questo spazio piccolo e angusto, una dietro l’altra in fila indiana, e il prezzo di questa strozzatura è una generazione sterile, come il vecchio narratore. La mostrificazione è dietro l’angolo, non risparmia nessuno e, se siamo noi a dare una struttura interpretativa alla realtà, allora essere mostri vuol dire incapacità di dare senso e significato alle cose, alla vita.
È un bicchiere d’acqua solo nella tua testa. È un simbolo. Sei tu che lo rendi un’unità indistinguibile e diversa. Il tuo cervello gli dà un significato.
Loro cercano la carne, sanno cos’è la carne.
Mettiamola così, una pulce sa cos’è un cane?
I simboli diventano binari, carne quindi fame, fame quindi carne, e così gli zombi si muovono, magneticamente attratti verso l’unica cosa che per loro esiste, il niente, il presente, la carne. Vivere diventa guardare la propria vita dall’esterno, oppure non guardarla proprio e pensare alla vita degli altri, quelli che hanno vissuto davvero prima di te, e collezionare i loro volti, i loro genuini frammenti di vita per avere almeno l’impressione che un lembo di vita vera ancora sia rimasto, che dentro il circolo vizioso carne fame fame carne magari possa esserci spazio, ancora, per qualcos’altro.
Un romanzo agile, preciso, complesso e diretto, un libro consigliatissimo a tutti coloro che vorrebbero respirare una brezza letteraria fresca, nuova, un libro con il quale divertirsi che però scalfisce e che spesso lascia attoniti, come se fosse stato sussurrato un segreto misterioso, nascosto benissimo, perché sotto gli occhi di tutti.
[…] sarò il tesseratto, l’insieme degli insiemi, la collezione delle collezioni, la biblioteca di tutti i libri possibili, il moto perpetuo. Oppure sarò semplicemente morto. Che, in fondo, è la stessa cosa.