Federica Nardiello
pubblicato 4 settimane fa in Recensioni

“Quelli che restano” di Gerbrand Bakker

corpi soli che nuotano e resistono al dolore

“Quelli che restano” di Gerbrand Bakker

Sono numerose le spinte che si celano dietro un atto natatorio: la volontà di superare i propri limiti, muovere il corpo; il bisogno di silenzio; raggiungere un traguardo; l’incapacità di comunicare; la riflessione; la noia. Spesso si tratta di brama di solitudine o il semplice fatto di viverci, nella solitudine. Nell’acqua può riflettersi il desiderio di osservare corpi altri, il tentativo di stabilire un contatto. Rare volte, in un tuffo, si nascondono i grandi temi della letteratura. Nell’impresa eroica di Neddy Merril, Il nuotatore di John Cheever, si celano i vizi e il falso perbenismo della borghesia americana degli anni Sessanta; Bonnie Tsui, nel suo Perché nuotiamo, ha indagato le diverse sfaccettature di una pratica che spesso viene data per scontata. Nuotare è un’impresa incredibile, è come volare.   

E ognuno di noi ha la sua storia di nuoto da raccontare.

In ogni bracciata urge almeno un aspetto umano. E Simon ne è la prova.

In Quelli che restano (Iperborea, traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo), il nuoto si intreccia alla vita privata e familiare di Simon, un quarantenne single che vive in un quartiere di Amsterdam dove le piante albergano nei marciapiedi e i pub diffondono le proprie luci sul canale. La routine priva di grandi aspirazioni lavorative di Simon è connessa a quel groviglio di silenzi e mancanze, ma anche di consolazione – nonostante l’incomunicabilità dilaghi incontrollata – che solo il nido familiare può offrire.

Lui è il figlio del barbiere (titolo originale del romanzo) scomparso una mattina di marzo e mai tornato, figlio di una madre al limite dell’intelligenza emotiva; ma anche figlio di un nonno che perlomeno non ha mai negato il fatto che allo stesso modo in cui lui ha perso un figlio, Simon ha perso un padre. «Sono tre le perdite, c’è un marito morto, un figlio morto e un padre morto, ma il padre morto è un perfetto sconosciuto, avrebbe potuto essere chiunque per quanto riguarda Simon. Gli viene in mente una strana immagine: sua madre che gli mostra la foto di un altro uomo, un’altra persona, un estraneo. Non se ne sarebbe accorto».

La deriva relazionale di Simon è inversamente proporzionale alle poche scelte consapevoli che compie nella vita: non riempire il salone ereditato dal nonno Jan di appuntamenti e clienti come nei bei tempi passati; nuotare e far sì che «per quanto shampoo o bagnoschiuma usi, il cloro si attacchi alla pelle».

Forse indirettamente, il nuoto si palesa all’inizio come emergenza di accantonare e procrastinare – forte tratto familiare – il dolore della verità. Un dolore collettivo che diventa intimo, personale. Quando nuota, Simon non pensa al vuoto che suo padre ha creato, andandosene quando lui non era nemmeno nato; al fatto che in realtà non ha un volto, una pelle, un odore da piangere. Nessuno con cui parlarne. Solo lo spettro di quello che avrebbe dovuto essere suo padre e un memoriale nel cimitero di Westgaarde senza neanche il nome inciso tra quelli delle vittime.

Curioso come questo romanzo di Gerbrand Bakker dissimuli sottilmente metaletteratura. Sembra un concetto caro alla letteratura olandese contemporanea, dove la figura dello scrittore fluttua e si muove tra finzione e realtà senza tracciare un confine netto (come ad esempio si vede in Il canto dell’essere e dell’apparire di Cees Noteboom, sempre Iperborea). In questa storia, lo scrittore, nonostante sia cliente abituale, non ha un nome: si cela dietro alla sua professione. Probabilmente si tratta di Bakker stesso: nonostante Simon sia di poche parole, il taglio dei capelli – le mani sfiorano pelli e gli occhi tergiversano attraverso uno specchio – è l’occasione per lo scrittore di conoscere a fondo la sua storia e quella di suo padre Cornelis, di raccogliere informazioni; l’intenzione, in realtà, è di scriverne proprio un libro (sarà mai proprio quello di cui parliamo in questo istante?).

Scintilla: Simon cerca per la prima volta di uscire dal mulino dell’incomunicabilità. La traversata è dura, il cloro non ha certo un buon sapore; cresce la fatica, ma l’arrivo sì che è soddisfacente. Deve saperne di più sul conto di suo padre. Può scavare tra le notizie, tra gli archivi, tra i ricordi degli altri.   

Sembra che Cornelis sia morto nell’incidente aereo di Tenerife del 27 marzo 1977, anche se non è ben nota la causa della sua presenza su quell’aereo. Non è mai apparso il corpo. E nemmeno il nome sul memoriale. Perché? Certo, Anja era incinta di Simon. E poi sulla lista dei passeggeri figura anche il barbiere assistente di Jan dell’epoca. Ma sono solo supposizioni. Chi era davvero Cornelis? E chi è davvero Simon?

Impareremo a conoscerlo piano, bracciata dopo bracciata. Soprattutto nei momenti in cui è fuori dall’acqua, quando i pensieri tornano ad affollarsi senza sosta. Spesso si posano sul poster di Popov nella sua camera: ed è lì che pensa a Igor.

«Igor nuota». O meglio, si muove nell’acqua guardando spesso altrove, incapace di comunicare frasi di senso compiuto; la sua disabilità non è ben chiara, ma è comunque parte del gruppo di ragazzi con disabilità con cui Anja lavora, in piscina. Henny, la sua collega, l’ha abbandonata lasciando il lavoro, per fuggire con l’amante su chissà quale isola delle Canarie: tocca a Simon sostituirla. In fin dei conti, quella piscina la conosce bene. È Igor l’incognita.   

Un cormorano tra i gabbiani. Un Popov tra i nuotatori amatoriali. Un corpo solo tra altri corpi. Il tentativo di Simon di esprimere il proprio bisogno di guardare qualcuno direttamente negli occhi e non attraverso uno specchio. Qualcuno da tenere vicino, in un paradossale silenzio colmo.

L’acqua clorata non solo è luogo dei più disparati bisogni umani; custodisce il segreto della rivelazione. Simon, nuotando, si libera. Nuotare, inconsapevolmente, lo porta a una sorta di crasi fra anima e corpo, a un’epifania muscolare. Alla pace. Ci si può avvicinare a una persona, così come a una storia familiare, ma solo fino a un certo punto.

Andando via dalla piscina, pedalando, si rende conto che «non ha più niente a che fare con altre cose che possono succedere lì», se non con la pace.