“Il silenzio” di Don DeLillo
L’ultimo, attesissimo, romanzo di Don DeLillo riporta in epigrafe le famose parole di Albert Einstein: «Non so con quali armi si combatterà la Terza guerra mondiale, ma la Quarta guerra mondiale si combatterà con pietre e bastoni». Da qui, l’anima di Il silenzio (Einaudi 2021, traduzione di Federica Aceto).
Siamo a Manhattan, anno 2022. A seguito della pandemia, appena accennata dallo scrittore statunitense, la popolazione deve confrontarsi con un collasso tecnologico: tutto il digitale ammutolisce. Il chiacchiericcio continuo degli schermi cessa.
Il libro, diviso in due parti, si apre con Jim Kripps e sua moglie Tessa Berens che ritornano dal loro primo viaggio post-pandemia; all’improvviso l’aereo sul quale viaggiano inizia a «ballonzolare di qua e di là», costretto a effettuare un atterraggio di fortuna. I due sposi devono raggiungere un appartamento nell’East Side dove tre amici – Diana Lucas, Max Stenner e Martin Dekker – li aspettano per guardare la finale della LVI edizione del Super Bowl, campionato di football americano che, tradizione vuole, è sentito come una festa negli States.
Ciò che mi ha colpito di questo romanzo breve – poco più di cento pagine – è la ristrettezza della trama; apparentemente non accade nulla, ma tutti i personaggi sono scossi dall’inspiegabile blackout tecnologico che, si presume, sia esteso su vasta scala. La visionarietà di DeLillo è spiazzante, nelle pagine di Il silenzio non c’è morale, né lo scrittore ha premura di dare risposte; piuttosto, si tratta di un libro di domande, ipotesi e supposizioni – sia nella lettura che nella narrazione.
Nella prima parte, che giudicherei preparatoria, DeLillo descrive il modo in cui i protagonisti vivono il collasso digitale; nella seconda invece – molto vicina a una pièce teatrale – a ogni personaggio è dedicato uno spazio, in forma di monologo, nel quale prendono forma le domande inquiete e irrequiete dell’individuo.
Ci sarà il sole? O non ci sarà nessuna traccia del sole nel cielo? Chi sa cosa significa tutto questo? La nostra normale esperienza ha semplicemente subito una battuta d’arresto? Stiamo assistendo a una deviazione della natura? Una sorta di realtà virtuale? Tutto ciò mi porta a dire: è il caso che tu stia zitta, Tessa. Dovete capire che quando parlo così non si tratta di un commento autocritico, bensì di presunzione. Io scrivo, penso, consiglio, fisso nel vuoto. È naturale in momenti come questo pensare e parlare in termini filosofici, come alcuni di noi stanno facendo? Oppure dovremmo avere un atteggiamento più pragmatico? Qualcosa da mangiare, un luogo dove stare riparati, amici, tirare lo sciacquone, se possibile? Tendere alle cose fisiche più semplici. Toccare, percepire, mordere, masticare. Il corpo alla fine fa di testa sua.
Lo scrittore, tra i più influenti nella letteratura post-moderna americana, dissemina il testo di domande: «Pensa ai diversi milioni di schermi neri. Cerca di immaginare i telefoni fuori uso. Cosa succede alle persone che vivono dentro il loro telefono?». Può sembrare banale, ma l’attaccamento tecnologico che DeLillo mette in evidenza con questa domanda – peraltro di un’esattezza fulminante – mi ha rimandato alla frase-monito «occhio alla spalla su cui poggi, perché se si sposta tu cadi»; sarebbe il caso di rivalutare, e quindi ricalibrare, quelle che crediamo essere le nostre priorità.
È innegabile, tuttavia, che viviamo in un’era iper-digitalizzata, in cui la tecnologia è prepotentemente presente nelle nostre vite. A tal proposito, per uno sguardo critico più consapevole, credo possa essere interessante fare un cenno al documentario The Social Dilemma, produzione Netflix, che mostra gli effetti dei social media sui milioni di utenti; altrettanto efficace è il Ted Talk in cui Tristan Harris mette a confronto i nostri cellulari con le slot-machine: ogni volta che aggiorniamo il newsfeed è come se stessimo tentando la sorte. «Cosa otterrò questa volta?», chiede al pubblico l’informatico statunitense.
Harris, esperto di etica del design per Google Inbox, ha coniato la frase “declassamento umano” per descrivere i danni causati dalle piattaforme tecnologiche quali dipendenza, distrazione, isolamento, polarizzazione. La nostra mente viene risucchiata, e forse ne siamo al corrente. Cito DeLillo: «Stiamo subendo un processo di zombificazione. I nostri cervelli si stanno gallinizzando».
Questa digressione può servire per riprendere e contestualizzare le parole di DeLillo:
In altri tempi, più o meno ordinari, c’era sempre qualcuno con lo sguardo perso nel proprio cellulare, di mattina, a mezzogiorno, di sera, in mezzo al marciapiede, incurante degli altri che passavano velocemente accanto, completamente immerso, ipnotizzato, consumato dall’apparecchio, con gli altri che quasi gli andavano incontro per poi schivarlo all’ultimo momento; e adesso questi tossicodipendenti digitali non possono fare niente, i cellulari sono fuori uso, ogni cosa è fuori uso, completamente totalmente fuori uso.
«Tossicodipendenti digitali» è senz’altro un’espressione forte, ma credo che lo scrittore abbia deliberatamente scelto questa via, per quanto radicale, per smuovere la coscienza del lettore. DeLillo si limita a raccontare il nostro quotidiano, non si sforza di deformare la realtà portandola ai suoi estremi. Insomma, perché nascondersi dietro un dito? Riversiamo parte della nostra identità – quantomeno quella che riteniamo meritevole di essere mostrata – nel cellulare; supponiamo che quanto scritto in questo libro si avveri – il che non sarebbe poi improbabile –, supponiamo dunque che la tecnologia subisca un blackout. Come gli schermi, diventeremmo freddi e neri anche noi?
In poco più di cento pagine, DeLillo condensa molte delle paure che animano il nostro tempo (e la lista è piuttosto lunga): cospirazione e armi nucleari; attacchi informatici, intrusioni digitali e aggressioni tecnologiche; crisi ambientale, microplastiche e pestilenze; armi biologiche e armi viventi (germi, spore, geni, polveri); hackeraggio e controhackeraggio; software di controllo di massa e violazione di dati; criptovalute; onnipresenza e onniscienza digitale; guerre di droni che, a detta di Martin Dekker, si stanno facendo autonomi.
C’è una domanda che risuona spesso nelle pagine di questo romanzo: «E poi?». È ripetuta in modo ossessivo dai personaggi, come per un bisogno irrinunciabile di conoscere ciò che sarà; è dovuto alla paura e all’inspiegabile collasso? O forse, per natura, abbiamo bisogno di definire ogni cosa, dunque anche il mistero e ciò che ancora non si conosce? Sembra che l’uomo debba controllare il senso di tutto e della fine, accorciando gradualmente la distanza fra noto e ignoto.
Cosa resta? Oltre la paura e le domande, cosa? Secondo DeLillo all’uomo incapace di comunicare, distratto dal cicalio intermittente e insistente di tweet e notifiche, chiuso ermeticamente nella sua individualità, resta il silenzio. Uno spazio esule che non deve spaventare, ma che, al contrario e per necessità, andrebbe coltivato e abitato.
Forse ognuno di quegli individui rappresentava un mistero per l’altro, per quanto il loro legame potesse essere stretto, ognuno di loro era racchiuso nella propria individualità in modo così naturale da sfuggire a una definizione conclusiva, a una valutazione immutabile da parte degli altri presenti nella stanza?
Ancora una volta DeLillo, con lapidaria acutezza: «Il mondo è tutto, l’individuo niente. L’abbiamo capito tutti, questo?».
Viene da chiedersi: poi, cosa sarà?
di Gennaro Nuzzi