La Birmania è cosa viva: “Myanmar Swing” di Carla Vitantonio
Continuo a camminare lentamente in questa Yangon che amo, e che è solo una tra le moltissime yangon che ho vissuto in questi anni, e che non contiene e non immagina la Yangon che tra pochi anni vedrò nelle foto su facebook – queste stesse stradine messe a ferro e fuoco, barricate, fumo, sangue –, passeggio tra le case di legno e i palazzi dalle scalinate incredibilmente ripide, conto le camicie appese a grucce colorate, che penzolano come dimenticate da una finestra (una girandola come la banderuola di Montale gira senza pietà, ma spinta da quale vento? Eppure è vero che anche io non so chi va, e chi resta).
Ho visto tutto questo e non sono riuscita a costruire storie. Ma solo spezzoni. Perché non esistono narrazioni possibili per chi non si allinea. Non avevo forse pensato la stessa cosa lasciando Pyongyang? Non mi ero dovuta arrendere al fatto che fosse impossibile costruire una narrazione lineare per chi come me si rifiutasse di schierarsi?
Marzo 2021: dalla solitudine del nostro isolamento pandemico osserviamo le immagini delle proteste in Myanmar. Diventa virale il video di una ragazza che fa aerobica mentre sullo sfondo sfilano i veicoli militari, nel bel mezzo di un colpo di stato. Myanmar. Un paese lontano, disperso da qualche parte nel macrocosmo Asia, il gigantesco continente di cui non sappiamo mai abbastanza.
Quando si parla dell’Oriente – non me ne voglia Said – si tende a dimenticare la moltitudine degli stati che lo compongono, la varietà dei gruppi etnici che lo abitano e la complessità degli eventi che ne hanno segnato la storia recente. Nell’immaginario comune gli asiatici sono remissivi, miti e privi di agency; i cinesi e i coreani sono indistinguibili; i buddisti sono tutti buoni e pacifici, rispettosi di ogni forma di vita e sempre pronti al dialogo. Adesso la tv ci mostra una situazione diversa: gli studenti scendono in strada per protestare contro i militari, costruendo barricate con mezzi di fortuna. Una suora fa da scudo ai ragazzi solo con il proprio corpo, piccolo e fragile. Molti manifestanti vengono arrestati o uccisi.
Che è successo? La nostra memoria (notoriamente corta, soprattutto per quanto riguarda la storia degli altri) non sempre ci permette di collocare gli avvenimenti del presente in un quadro chiaro e organico. Allora ci servono voci che possano trasmettere la concretezza, la realtà quotidiana dietro le immagini catturate dagli obiettivi delle telecamere. Perché quei manifestanti sono – o erano – persone vere, inserite in un contesto fattuale. Aprire bocca per dire poveri ragazzi non basta. Dobbiamo guardare al Myanmar come a una dimensione reale, quella che avremmo potuto respirare se fossimo andati lì qualche anno fa, prima della pandemia e del colpo di stato.
Possiamo attingere ad articoli e studi settoriali, ma anche ai racconti non specialistici di chi conosce bene questo paese e le sue problematiche. Ed è qui che arriva Myanmar Swing (Add Editore, 2021), finito di scrivere proprio a marzo 2021 e pubblicato a fine maggio. Due righe sulla voce narrante di questo libro: Carla Vitantonio è attivista, attrice e cooperante internazionale. Prima dell’esperienza birmana, terminata nel 2019, ha vissuto per quattro anni in Corea del Nord, periodo impresso nelle pagine di Pyongyang Blues (Add Editore, 2019), che è anche un podcast omonimo. È una persona che ha tanto da raccontare e che, forse anche grazie agli studi di recitazione, sa farlo bene.
Breve disclaimer sul libro: non è un saggio, non è un resoconto delle vicende storico-politiche del Myanmar, né tantomeno una guida turistica. È un testo assolutamente personalizzato; la presenza autoriale è il filtro costante attraverso cui procede la narrazione e non si limita a incursioni occasionali. C’è il racconto di un paese e ci sono soprattutto le riflessioni, le emozioni e gli stati d’animo della scrittrice. La sua voce si materializza con vitalità impressionante, tanto che alla fine si ha più che altro la sensazione di aver ascoltato un monologo teatrale, di quelli particolarmente coinvolgenti e vividi.
Lo confesso, all’inizio ho pensato che l’impostazione monologica mi avrebbe distratta dalla tematica principale, ma dopo poche pagine mi sono ricreduta e anzi, proprio grazie ad essa mi sono sentita catturata in un tutto organico, animato. Non tralascia nulla, nemmeno quegli aspetti che sfuggono alle narrazioni giornalistiche e ai trattati sui massimi sistemi: i longyi tradizionali stesi ad asciugare, i blackout ricorrenti, la ravioleria cinese, i topi per strada, i formulari da riempire in aeroporto. Ma se avete vissuto lontano lo sapete: ciò che ricorderete con più calore sono proprio le inezie.
Di tanto in tanto l’occhio dell’autrice si posa poi sugli annosi problemi del paese ospite. Temi scomodi, generalmente sorvolati da quei servizi tele-giornalistici di cui parlavamo prima. Impariamo che il Myanmar è abitato da una moltitudine di etnie in perenne conflitto tra loro. Che i monaci buddisti hanno un potere statale notevole e, come tutte le lobby religiose, lo impiegano (anche) in chiave oppressiva nei confronti delle minoranze. Che la Signora, la leader democratica Aung Saan Suu Kyi, non si è mai pronunciata riguardo alla crisi umanitaria che coinvolge i musulmani rohingya. Che i rohingya sono praticamente ignorati dall’opinione pubblica internazionale, il che li espone a una vera e propria pulizia etnica. Che la Birmania è una sorta di paradiso queer in Asia. Che è piena di mine inesplose, sospese come una spada di Damocle sulle vite dei civili. Che lo stesso mondo della cooperazione internazionale è una polveriera e, il più delle volte, mantiene un preoccupante legame con una visione del mondo di matrice coloniale.
Gli vorrei raccontare della mia delusione davanti all’insostenibile competizione tra le Ong, tutti a spartirsi soldi e beneficiari e a cercare di chiudere il circolo e non fare entrare nessuno. Di quella volta che, arrivata a un incontro, mi è stato chiesto che cosa ci facessi io lì. Vorrei raccontargli dell’ipocrisia dei donanti e di come sto scoprendo che la cooperazione allo sviluppo è davvero troppo spesso l’altra faccia di una medaglia che a volte mi viene da chiamare neocolonialismo.
La leggerezza e la tendenza aneddotica di Vitantonio fanno in modo che la lettura risulti scorrevole e spesso divertente, ma non cancellano il peso di questi e altri problemi. La voce narrante si pone in continuo dialogo (o anche scontro) con la realtà sociale che la circonda. Questo è ciò che ho apprezzato maggiormente nel libro: l’equilibrio tra l’analisi delle circostanze esterne e la consapevolezza della propria posizione. Esso affiora a sua volta non come un concetto astratto, ma come esperienza diretta dal volto umano. Non ci sono idee e teorie geopolitiche, ma persone. Per dirla brevemente, tutto il romanzo è percorso da una vena di attivismo, che emerge con particolare forza nel momento in cui Vitantonio ricorda la propria partecipazione alle proteste contro il G8 di Genova e l’uccisione di Carlo Giuliani:
Giocammo tutto e perdemmo tutto. Siccome non era abbastanza, perdemmo pure un ragazzo, il che era perdere molto più di tutto. Mi piacerebbe raccontare le gesta eroiche che compii a Genova in quell’estate 2001. Invece le uniche gesta eroiche che compii furono andare, tornare viva e quasi illesa, e non aggiungere il mio corpo a quel troppo che avevamo perduto.
Non è un libro di mezzi termini, non ci sono giudizi cauti o espressioni edulcorate. Il linguaggio è schietto, nel bene e nel male. Non sarà un libro perfetto, non sarà il romanzo dell’anno. Però mi è piaciuto. Ho trovato tanta realtà, che è il miglior modo per raccontare il mondo. Ho imparato tante cose su un paese di cui sapevo molto poco. Ho riso e mi sono incazzata. Ho pure versato qualche lacrima. Ho letto con piacere. Sono arrivata alla fine, si è calato il sipario sulla scena di Myanmar Swing. Che bella serata.