“Libertà grande” di Julien Gracq
C’è in ogni traiettoria un passaggio a vuoto che trattiene il cuore dal battere e divarica il tempo: quello in cui il fuoco d’artificio, al vertice ammortizzato della parabola, si posa su un letto d’aria subito prima di sbocciare.
Parigi all’alba, poème en prose che apre La Terra Abitabile – seconda sezione di Libertà grande –, è una delle più emblematiche e sublimi testimonianze del gusto di Julian Gracq per la geografia del paesaggio. L’attenzione che l’autore riserva ai luoghi descritti nasce dal suo essere un grande spettatore, dotato di una memoria visiva e poetica sempre in movimento. Fondamentale per comprendere questa sua predilezione per lo spazio è il mestiere che lo scrittore ha esercitato durante tutta la sua vita: Julien Gracq fu infatti insegnante di geografia al liceo e professore di storia e geografia all’università.
Il suo modo di raccontare le città, i paesaggi e le alture non è mai lirico o sentimentale, ma concreto: le forme e i contorni prendono vita autonomamente, trasmettendo tutta la loro poesia senza quasi bisogno dell’intervento della scrittura. Le frasi lunghe e l’utilizzo della paratassi testimoniano lo sguardo di un osservatore instancabile, alla perenne ricerca di nuovi dettagli e prospettive generosamente dipinti agli occhi del lettore. «Ciò che è lontano mi affascina e mi interessa più di ciò che è vicino» diceva Gracq: l’autore vede nella distanza non un ostacolo ma un’opportunità creativa, l’unica via per liberare l’immaginazione.
Il potere suggestivo raggiunge la sua massima intensità all’alba:
Ogni mattina un deserto a perdita d’occhio di muri, pavimenti lucidi e specchi d’acqua limpida presenta agli uomini il compito estenuante di farlo rifiorire, interamente, in ogni anfratto, di rivestirlo e di accecarlo […] Il mattino, come un’inondazione che d’un tratto si ritiri, rivela a un’inquietante mancanza di risposta il carattere di pura provocazione di un’attività talmente incomprensibile da restare segreta ed essenziale quanto a una donna la nudità.
L’immagine dell’inondazione e l’intero isotopo dell’acqua – molto presenti nelle sue opere – rappresentano metaforicamente la vita: quest’ultima è per Gracq un oceano infinito in cui l’uomo continua a navigare anche se non conosce la propria meta, ondeggiando su una piccola imbarcazione. La vera felicità risiede in questo movimento continuo, nell’esplorazione dell’ignoto, e la scrittura è ciò che permette tale viaggio avventuroso nello spazio-tempo: anche le città, come scrive nel poema Per galvanizzare l’urbanismo, sembrano non aspettare altro che «essere messe in movimento dalle fragilissime e tenui ispirazioni della poesia».
Tuttavia nessun luogo, per quanto protagonista, è diviso dall’uomo: persino la natura più selvaggia interagisce con questo, dando vita a una scrittura armoniosa e melodica, in cui anche il più piccolo elemento è partecipe della presenza umana e ne riflette l’interiorità.
È in noi che il momento presente, in un luogo sparuto del pianeta, realizza e conserva la sua totalità, e finalmente basta a se stesso – un altrove non esiste più – un altrove non è mai esistito – ogni cosa è in comunione perfetta con quanto è a essa permeabile; ci si sente, qui, quando tutto sta per essere assorbito, una goccia tra le gocce, nell’istante che subito precede il suo tornare a essere dissolta nella morbida spugna della terra.
Il rapporto tra i personaggi e il loro ambiente è solubile, simbiotico: esistono delle affinità elettive tra l’essere umano e la geografia che lo circonda, come dimostra la celebrazione della donna amata in Le trombe d’Aida.
Grandi paesaggi segreti, intimi come il sogno, volteggiavano senza sosta e si volatilizzavano su di lei come l’incenso leggero delle nuvole sulla guglia incandescente di una cima. Arrivava come la vampa di luce di una foresta contemplata da una torre, come il sole estenuato dalla foschia di una costa piovosa, come il canto fortificante della tromba sulle piazze allargate del mattino.
Il paradosso della poesia di Gracq risiede nella sua capacità di sprigionare colori, suoni, immagini tangibili, e allo stesso tempo di ridursi al silenzio e alla pura contemplazione: certe similitudini ed espressioni sembrano infatti procedere a un annullamento del paesaggio, come se Gracq, diventato pittore, decidesse di rappresentare il vuoto e il torpore del mondo. Dai «cardi di pietra immobili» e dalla «radura canadese abbandonata» del poema Paesaggio al «porto devastato dal mare» e ai «portici dei palazzi ciechi impiumati di nero» di Il passeggero clandestino, una geografia di rovine si impone ai nostri occhi, trasmettendo un senso di impotenza e di solitudine che arrivano quasi a evocare lo spettro della morte.
Ma osservando più attentamente, Gracq incarna quello sguardo surrealista che lo scrittore stesso definiva «uno sguardo distruttore, carico dell’infinità del desiderio». La desolazione non è priva di punti di riferimento, e la magia riveste anche gli angoli più bui:
Nel centro pulsante della notte in dissoluzione, sciolti ormai tutti gli ormeggi, abbandonata ogni pesantezza, come galleggiando nell’acqua di un respiro dolce, io ero un puro luogo di scambio e di alleanza.
Come se tutto rinviasse all’esercizio di una Libertà grande, persino gli elementi inanimati che popolano le poesie di Gracq cercano il tumulto, l’ebrezza: così la città di Parigi è «un corpo gigantesco», libero dagli impedimenti di chi l’ha creato, quasi una «divinità». La personificazione, figura retorica ideale per la poesia, avvolge l’opera di Julien Gracq dal primo all’ultimo componimento, conferendo chiarezza e verosimiglianza a un insieme di simboli e di prospettive inavvicinabili.
Questi ultimi elementi rinviano alla poesia simbolista, con cui l’autore condivideva la sete di libertà e la necessità di fuga. Non a caso il prologo di Libertà grande è un passaggio tratto dalle Illuminazioni di Rimbaud: il poeta è un «fugace e non troppo scontento cittadino di una metropoli ritenuta moderna» che racconta ciò che vede di una realtà svuotata e sfuggente. L’uomo si adatta al suo ambiente facendosi ombra, elemento di passaggio: «la forma pura del viaggio» diventa anche la figura più pura di sollievo e armonia nel disequilibrio moderno, l’allontanamento dai luoghi affollati è un «evento di ali, una freschezza di resurrezione».
L’anima in migrazione domina la poesia di Gracq, e soprattutto domina il tempo: per cogliere l’istante presente bisogna sempre ricordare quello passato. Tutte le epoche storiche e tutte le stagioni risorgono, ogni momento del giorno e della notte svela i suoi segreti, e tutti gli orologi delle città battono le ore, proprio come un cuore che sa di dover battere il più possibile perché «tanta bellezza è mortale».
Incursione unica nell’opera di Julien Gracq, che prediligeva il genere dell’essai o del romanzo, Libertà grande – pubblicato originariamente nel 1946 da José Corti e portato in Italia nel 2021 da L’orma editore nella traduzione di Lorenzo Flabbi – irriga pertanto tutta la sua produzione artistica e quella del suo tempo con un meraviglioso «taccuino di estasi letterarie».