“Madame Andata e Ritorno” di Lisa Morpurgo
Non so come siano andate veramente le cose. Certe decisioni paiono salti bruschi, scatti della volontà, e invece tutto è stato preparato da tempo prima che ce ne accorgessimo. La volontà non c’entra affatto.
Madame Andata e Ritorno, il sorprendente e finora dimenticato esordio narrativo di Lisa Morpurgo, ha a che fare con il destino. Questo è uno dei molti aspetti interessanti del romanzo: oltre alla presenza di temi attuali e rivoluzionari (l’emancipazione femminile, e più ancora un’idea spontanea di libertinismo che disarma qualsiasi istanza moraleggiante), il testo è attraversato da una sensazione di circolarità, di rimessa in ordine di ogni cosa, da coincidenze che restituiscono, a tratti in modo perturbante, la certezza di una sovradeterminazione che accompagna la natura di ogni individuo.
Nota soprattutto come astrologa, traduttrice dal francese e dall’inglese per Longanesi, Lisa Morpurgo ha esordito nella narrativa con questo elegante libro, che in molti punti sconfina in un realismo magico e discreto. Longanesi lo ha pubblicato nel 1967, poco prima che Morpurgo scoprisse la sua vocazione per l’astrologia (il suo «secondo destino», come lo chiama Flavia Piccinni nell’appendice del romanzo, edito quest’anno da Atlantide). Una passione tardiva, venuta in seguito alla traduzione di Lo zodiaco. Segreti e sortilegi di Françoise-Régis Bastide, sfociata poi in un profondissimo lavoro di ricerca scientifica in campo astrologico. Quasi a confermare che «la vocazione può servirsi del talento, ma non ha bisogno del talento. È la sensazione che abbiamo nel momento in cui stiamo facendo qualcosa, e non ha niente a che vedere con il traguardo», come scrive Melissa Panarello nel suo Lisa Morpurgo, recentemente uscito nella collana «Mosche d’oro» di Giulio Perrone Editore.
C’è, insomma, la percezione di una forza irresistibile che sembra trascendere le intenzioni narrative e letterarie; in nuce, nel romanzo sono presenti molti elementi che caratterizzeranno l’approccio morpurghiano all’astrologia: la simmetria, il movimento, l’ordine, il ritorno, e soprattutto l’idea dell’esistenza di un destino che, probabilmente, stava aspettando l’autrice da sempre.
È una curiosa aderenza fra il dentro e il fuori dal romanzo, tra la protagonista (che racconta in prima persona) e la scrittrice, al punto da far sospettare l’autobiografismo e da rendere ancora più enigmatica la personalità di questa donna straordinaria.
Il racconto comincia dalla fine, con un incipit che ha forza centripeta: «Andò a finire che sposai un inglese e ora viviamo in un bell’appartamento a Knightsbridge». L’inizio della storia narrata, poi, coincide con un crollo: la torre posta nell’ala sud del castello di Filippo, l’aristocratico pittore spagnolo di cui Madame è la segretaria personale, finisce in macerie nella notte durante la festa di fine estate. Costanza, amante di Filippo ormai sfiorita nel ruolo e nel desiderio, confinata nella torre, ne viene travolta. Come l’arcano XVI dei tarocchi di Marsiglia, la Torre rompe bruscamente un equilibrio, muove gli eventi in una direzione da qui in avanti inesorabile: Filippo, libertino incorreggibile, spinge Madame a lasciarsi libera di amare altri oltre al marito Andrea, un uomo evanescente come le patologie immaginarie che lo affliggono e che lo portano a stare con Madame solo per brevi periodi, nelle pause tra terapie discutibili e ricoveri in clinica.
Si parlava di cose banali o importanti e spesso anche di me. Fu Filippo che a poco a poco mi convinse a cambiar vita o, come egli diceva, a distrarmi. Affermava che far l’amore giova alla carnagione, diventa più fresca, vellutata. A quell’epoca infatti soffrivo di acne, ma esitavo per pigrizia o timidezza. Fors’anche per paura. Filippo mi assicurava invece che la buona reputazione, se dura abbastanza a lungo, è difficilissima da distruggere.
Madame incontra il primo amante in un viaggio a Hong Kong; un italiano, Paolo, dal carattere schivo e forse depresso, alla cui mancanza di passione Madame trova una compensazione nell’assaporare le sensazioni che questa sua nuova liberazione le restituisce, senza scossoni morali. Il secondo è Boris, un bulgaro conosciuto a Parigi. È per lui che Madame prende in considerazione l’idea di divorziare da Andrea, separazione agevolata da un’insolita fortuna – Madame, nella fretta di prendere il treno per incontrare Boris, dà inconsapevolmente il nulla osta per l’ibernazione e la vetrificazione di suo marito. Pensa a Boris quando trova una pietra magica, buona «per le fatture d’amore e di morte», e se ne fa leggere i responsi in una notte di luna piena.
Eppure, nel suo racconto l’amore non è un facilitatore del destino, non ne è segno. Né il destino si lascia piegare, indirizzare da qualsiasi sentimento, così come da qualsiasi azione, conscia o inconscia, volta a contrastarlo, modificarlo, forzarlo o avvantaggiarlo.
Le vicende di Madame si intrecciano a quelle di Filippo, delle sue amanti, del suo agente Alberto e della servitù del castello: nulla infatti si ferma, tutto fluisce parallelo, sovrapposto, incrociato. Filippo, le congetture e i segreti; le indagini dell’ispettore Sedan sul crollo della torre; le perizie affidate a personaggi bizzarri; il ciclo della vita che fa il suo corso e che, di tanto in tanto, impone con garbo cambiamenti e imprevisti.
In Madame Andata e Ritorno si insiste sul presente, sul suo costante non opporsi al destino, in uno spirito di accoglienza e di resa aperta al futuro; Janos, il terzo amante, dice a Madame: «Non pensare mai al passato, […] non esiste più».
È in questo che Lisa Morpurgo è rivoluzionaria; nel rispetto del presente, momento infinito della scoperta e dell’accettazione della propria natura, che si riflette nel flusso degli accadimenti. C’è corrispondenza tra il disegno interiore e quello della sorte, fra individuo e cosmo. Da questo punto di vista l’emancipazione di Madame, sovversiva e ancora sorprendentemente attuale, assume tratti d’impressionante naturalezza, spontaneità, verrebbe da dire quasi di giustizia.
Dunkirk, lo storico stravagante a cui è stato affidato il compito di una controperizia sul crollo della torre, afferma, a proposito del suo antagonista nelle indagini: «Temo che il signor Guadalajara non sia uno storico, come generalmente si suppone, […] ma un contabile. Parte sempre da elementi concreti, e questo è già un errore. Inoltre, si sforza di costruire il passato sullo schema del presente e non tiene conto dell’elemento più importante, che è il futuro». Il futuro ha molta più forza del passato, e ha già l’aura di scientificità e logicità, di dinamica di forze (e non di dialettica di forme) che ha contraddistinto Morpurgo.
A impreziosire la costruzione della trama, che si presenta senza sbavature e priva di incoerenze o di sospesi, in un equilibrio perfetto tra implicito ed esplicito, è il simbolismo di cui è intrisa. Il testo è disseminato di segni, presagi, indizi, corrispondenze, con la finezza di uno spazio lasciato all’incredulità scettica: il giusto margine di tempo lasciato al compiersi del destino.
Oltre al crollo della torre, che crea un’atmosfera legata all’archetipo e alla magia, sono molti i passaggi nel testo che sembrano avere un valore simbolico di singolare coerenza, come a parlare un linguaggio parallelo con regole sintattiche e semantiche proprie: di Paolo, per esempio, Madame non ricorda nemmeno il volto. «Non riuscivo a descriverlo. Quando fui sola, mi accorsi che non riuscivo a descriverlo nemmeno a me stessa». Il rapporto con Boris è più complesso, i segni si articolano in uno schema che, per quanto frammentario, non ha in sé il caos del rompicapo ma resta fedele a una certa linearità. La Morpurgo traduttrice sembra sfuggire alla disciplina della voce narrante in una prima messa in guardia:
Non so perché gli spiegai che gli spagnoli usano il verbo più bello per dire “fare l’amore”, e cioè acostarse, amarsi ed essere vicini, con tenerezza. “E in bulgaro come si dice?”, chiesi. Me lo disse, guardandomi: era una parola dolce e complicata che dimenticai, parlammo sempre in francese, in seguito.
Filippo, nella sua passività apparente fatta di inazioni e di coazioni a ripetere, maschera il ruolo di messo mutaforma del destino, che incoraggia ad assecondare il flusso delle cose, a non opporvisi.
La scrittura è elegante, misurata; le parole sono scelte con precisione, soppesate con cura in nome di una leggerezza che trova sostegno in una sintassi rapida, ritmata e armonica. Morpurgo non indugia su ciò che non è necessario; a tratti aforistica, ricorda la Lalla Romano di Nei mari estremi e in qualche modo di Metamorfosi. I passaggi descrittivi sono esempio pregiato di un’essenzialità densa, vibrante, visiva; sono i passaggi in cui la temperatura emotiva, che non è mai infuocata e che anzi ha una pacatezza rasserenante, raggiunge con pochi tocchi un’intensità elevata senza creare squilibri.
Non manca l’inaspettato, la rivoluzione conclusiva che chiude il cerchio in maniera magistrale, riavvolge la storia spianandone la coerenza: come se Morpurgo avesse avuto da sempre questa struttura dentro di sé a lavorare come intuizione indipendente, come se le fosse stata irresistibile prima ancora che cosciente.
di Naima Bolis