Culturificio
pubblicato 8 anni fa in Letteratura

Alfieri tragediografo, tra individualismo e introspezione

la scelta drammatica come proiezione di sé e laboratorio dell’Io

Alfieri tragediografo, tra individualismo e introspezione

L’esperienza drammaturgica di Vittorio Alfieri, che, con il pressoché totale accordo dei commentatori, trova la sua più luminosa espressione nell’opera di argomento tragico, rappresenta un momento imprescindibile nella storia del teatro italiano e più in generale nella storia letteraria del nostro paese. Le ventuno tragedie in versi, composte in un arco temporale di circa tredici anni, sono, nella loro evoluzione e con le reciproche peculiarità, un punto di vista privilegiato sul percorso estetico-letterario del loro autore e, allo stesso modo, sulla sua vicenda strettamente umana e psicologica, tanto da rendere possibile interpretare l’evoluzione del sistema tragico dell’astigiano come riflesso del proprio percorso personale e del travaglio interiore che lo caratterizza.
È del tutto condivisibile, infatti, che le due direttrici su cui si muove tutta la produzione tragica alfieriana, in varie forme e combinazioni, sono l’individualismo eroico e il pessimismo desolato che lo corrode: il “titanismo”, lo slancio di assoluta affermazione dell’io, è costretto a confrontarsi con una realtà inadeguata e ostile, che soffoca la personalità totale e si manifesta in una concezione pessimistica e scettica del destino umano, misero ed impotente, cosciente dell’impossibile realizzazione del proprio sentire. La prima incarnazione tragica dell’individualismo alfieriano è il Filippo (1775), in cui la tematica politica si manifesta come ferma affermazione della libertà antidispotica, ma è probabilmente con il Saul e la Mirra, considerati il punto d’arrivo della sua produzione, che, pur con forme diverse, Alfieri giunge alla definitiva consapevolezza della reale miseria della condizione umana.
Parlando dell’uomo Alfieri, è consuetudine fare riferimento alla sua complessa personalità asistematica e a tratti contradditoria, testimoniata in modo ricorrente nel suo memoriale, la Vita scritta da esso, la quale costituisce una fonte costante ed insostituibile sulle modalità della sua “vocazione tragica”. Ad ogni modo, questi giudizi non devono risultare sintomo di un apparato poetico fragile e confuso, ma testimoni viceversa l’impossibilità di vincolare il nostro autore a facili categorie letterarie quali possono essere i due essenziali termini dell’Illuminismo e del Romanticismo; per quanto se possa riccamente discutere, Alfieri, nella sua complessa sistemazione storico-critica appartiene contemporaneamente ad entrambi ma a nessuno dei due pienamente: egli costituisce una personalità assoluta, sciolta da ogni possibile costrizione o vincolo, che proietta in letteratura la sua esperienza umana e la sua titanica tensione verso il sublime.
Si parlava di una vera e propria vocazione perché, prestando fede alle parole che l’autore stesso ci lascia nella Vita, dobbiamo collocare nell’anno 1775 un’improvvisa presa di coscienza da parte di Alfieri del proprio destino di scrittore; le ragioni di questa “conversione” rispondono a scelte ancora una volta del tutto personali: il giovane ed inquieto Alfieri trova nella forma tragica il genere poetico più adatto ad esprimere il proprio ardente bisogno di gloria e la propria titanica tensione verso il sublime e l’assoluto. I principi ispiratori delle sua teoria drammatica sono illustrati in alcuni scritti tra loro diversi, ma tutte preziose testimonianze dirette della poetica drammatica alfieriana, in cui si affrontano questioni come la composizione, la struttura, la distribuzione degli atti, la natura dei personaggi “tragediabili”, la versificazione ecc. I principali sono la Risposta dell’autore (1783), i Pareri dell’autore sopra le presenti tragedie (1789) e, come già accennato, la Vita; essi aiutano a comprendere quale fosse, nell’intenzione inequivocabile dell’autore, il rapporto tra ogni singola tragedia ed il suo ideale drammatico.121821.1-1
È in questi lavori che emerge la coscienza tecnica dell’autore, a partire dal metodo seguito nel concepimento e nell’elaborazione di ogni singola tragedia. La composizione, secondo Alfieri, si articola in tre celebri momenti consecutivi, battezzati “respiri”  : il principio è “l’ideazione”, che consiste in una breve e schematica esposizione in “due paginucce di prosaccia” dell’argomento, a cui segue la “stesura”, ovvero la dialogizzazione sempre in prosa dell’intera tragedia, disponendola in atti e scene. Queste due prime fasi sono originate da un processo spontaneo ed impetuoso, alimentato dalle componenti più irrazionali dell’animo creativo, ma pur essendo necessarie, non sono sufficienti: segue un più razionale e ponderato momento, da svolgersi “col riposato intelletto”, la “verseggiatura”; in essa il contenuto primordiale è disciplinato in una forma espressiva rigorosa, non solo reso in versi, ma sottoposto ad un accurato “limare, levare, mutare”.
Strutturalmente parlando, l’ideale tragico Alfieriano si concretizza in una rappresentazione unitaria, breve, snella e rapida, dal ritmo incalzante, tale da evitare indugi e rallentamenti, che causerebbero cadute d’interesse e noia nel pubblico. Per questo il dramma deve limitarsi all’essenziale, eliminando ogni elemento superfluo, come i personaggi secondari, non indispensabili all’azione, le divagazioni o le trame parallele:
l’autore si è studiato a spogliare il suo tema d’ogni qualunque incidente che non vi cadesse naturale, necessario e per così dire assoluto […] Dalla soppressione d’ogni chiacchiera che non sviluppi passione, d’ogni operare che al termine per la più breve non tragga, ne è derivata di necessità la soppressione di tutti i personaggi non strettamente necessarissimi.
La rigida disciplina strutturale si traduce stilisticamente in una forma rapida, concisa ed essenziale, con battute brevi; si incarna metricamente nel verso tradizionale della nostra poesia, l’endecasillabo sciolto, privato tuttavia di ogni facile armonia e basato invece su un periodare duro, aspro ed antimusicale, con continue variazioni di ritmo, enjambement esasperati ed inversioni ardite nella costruzione sintattica. Tali presupposti teorici si realizzano in un percorso estetico-testuale che, secondo questo modello interpretativo, rispecchia lo sviluppo di percorso di riflessione interna all’animo dell’autore. La tendenza critica che sto tentando di seguire, tra le più recenti e fortunate, deriva dalle conquiste psicanalitiche del novecento e fornisce una chiave di lettura dell’opera alfieriana che, rispetto agli aspetti lirici e drammatici, ne sottolinea la componente introspettiva e psicologica. Questa chiave di lettura deve la propria affermazione fondamentalmente al lavoro di Giacomo Debenedetti , uno dei più acuti critici del secolo scorso, il quale vede l’opera tragica di Alfieri come una proiezione letteraria della sua irrequietezza, in riferimento al terreno dei rapporti intimi, familiari, domestici.
In una lettura di questo tipo, acquista una posizione esemplare la figura di Saul, protagonista dell’omonima tragedia del 1782; il primo re d’Israele nel dramma è caratterizzato da un Io gigantesco in lotta per spezzare ogni limite: pur consapevole che uscirà sconfitto da questa battaglia, non per questo smette di combattere ed incarna perfettamente il titanismo alfieriano. Questi tratti di una concezione tragica della vita l’autore li riversa in Saul, facendone, secondo Walter Binni, il suo personaggio più caro, perché il più vicino anche alla sua natura complessa e irrequieta, ora tormentata da ira e malinconia, oscillante fra impeti e sdegni eroici e desiderio di quiete e affetti consolatori.

 

[…] Il Saul nasce così dagli strati più profondi dell’animo alfieriano, dal fondo più intimo della sua esperienza della vita, dal centro della sua intuizione della tragica situazione umana.

 

 

Concludendo, il percorso poetico degli eroi alfieriani può essere felicemente analizzato come riflesso del travaglio esistenziale dello scrittore; se la domanda è quanto Alfieri riversi di personale nella propria opera, la risposta che dobbiamo di necessità darci è che egli sembra proiettare nei suoi protagonisti moltissimo di sé e della sua condizione interiore. Queste parole di Bruno Maier risultano una luminosa ed opportuna sintesi di quanto detto:
“Ben si comprende perché l’Alfieri abbia composto le sue tragedie, esprimendo in esse nel modo più pieno ed aderente la sua personalità di uomo e poeta. La tragedia è, insomma, la sola trascrizione possibile della fondamentale tragicità alfieriana; e il dissidio tragico, la metafora teatrale intesa come scontro di opposte passioni, come urto dinamico di tensioni e aspirazioni contrastanti, è la proiezione diretta, necessaria, insostituibile della condizione conflittuale e drammatica dell’autore”.
Il conflitto personale dei personaggi alfieriani rispecchia e tradisce l’umanità del loro creatore, e l’impossibilità di essere del tutto afferrato e compreso; condizione imprescindibile di tutte le personalità sublimi ed assolute, per le quali vita e poesia, esistenza e letteratura, si fondono e confondono.


 

 

Articolo a cura di Dario Cerutti