“Atti umani” di Han Kang
humanitas, crudeltà e persistenza della memoria
Homo sum, humani nihil a me alienum puto [Sono un uomo, niente di ciò che è umano è a me estraneo].
Già nel II Secolo a.C. Terenzio incasella in maniera così precisa l’aggettivo “umano”, rivelando le connotazioni positive dell’humanitas e un suo certo grado di superiorità morale, ovvero ciò che ci distingue dagli altri animali. Han Kang, però, sin dal titolo del suo romanzo ristabilisce le sfumature grige che connotano tale aggettivo, che è di per sé neutro l’umano è legato sicuramente all’ingegno e a un certo tipo di etica, ma è contraddistinto anche da un sadismo repressivo e crudele, che annulla la diversità e il dissenso per favorire voci univoche.
Quali sono gli atti umani che caratterizzano questo romanzo così ricco di sfumature? Sono quelli di coloro che resistono alla dittatura militare, che cercano di ricordarne gli orrori e di non tacerli; o vanno considerati in quanto tali anche quelli di coloro che uccidono spietatamente a causa di una politica identitaria e autoritaria? Anche la sottomissione è un atto umano, un prodotto crudele e programmatico che deriva anch’esso da quell’ingegno tanto declamato dalla cultura umanistica.
Han Kang costruisce un romanzo corale che attraversa la storia recente della Corea del Sud e il periodo delle dittature militari, in cui la violenza autoritaria si intreccia con i traumi intergenerazionali causati dal massacro di Gwangju del 1980. Sono tante le voci che animano Atti umani (Adelphi, trad. di Milena Zemira Ciccimarra) e sono altrettante le tecniche narrative impiegate dall’autrice per far emergere tutto l’orrore che la violenza dell’uomo imprime nella psiche dei suoi simili. La focalizzazione multipla permette alla scrittrice di impiegare diversi registri e formule: si va dall’io narrante dell’autrice a un tu narrativo, dalla confessione all’analessi, dal soliloquio alla terza persona.
Inizia tutto da un ragazzo, Dong-ho: la sua innocenza ha la stessa forma di un fiore, più precisamente di un malvone, che presenta «steli lunghi e rigidi, da cui si dischiudono fiori simili a piccoli brandelli di tessuto bianco». Ma questo candore presto si interrompe: a segnare gli ultimi giorni di Dong-ho saranno altri brandelli di tessuto, non più bianchi ma intrisi di sangue, quelli in cui verranno avvolte le salme degli studenti morti durante le manifestazioni del 18 maggio 1980.
Kang padroneggia la narrazione in seconda persona, rivolgendosi in maniera reiterata a Dong-ho. Traccia minuziosamente l’operato del ragazzo nell’Ufficio provinciale, seguendolo nella ricerca del cadavere dell’amico Jeong-dae. Ma qui il protagonista appena quindicenne si affaccia su una realtà crudelmente esplicita e disturbante: i corpi sono putrescenti e maleodoranti, e gli effetti plastici di una morte violenta si riflettono nell’atmosfera cupa che circonda Gwangju. La legge marziale avvelena la città e i suoi abitanti, che guardano direttamente alle fallacie dell’umanità e agli atti di cui è scientemente capace la tirannia.
Negli altri capitoli gravitano le anime toccate dall’esistenza di Dong-ho, che con le loro voci dimostrano la collettività dei traumi e come le storie dei singoli siano parte della memoria della società. L’io narrante interviene nel secondo capitolo, dedicato a Jeong-dae: è un fantasma azzurrino che si riguarda nel suo istante peggiore, quello della morte e della decomposizione, quello in cui il corpo è lasciato morire e marcire come se fosse una carcassa, o un fiore trascurato. E poi ci sono le storie della redattrice, del prigioniero, dell’operaia e della madre del ragazzo, fino a quella della scrittrice, che è la stessa Han Kang.
Le manifestazioni tangibili del male si riversano sugli studenti, ragazzi innocenti che non hanno commesso nessuna violenza: la legge marziale è un’evidente manifestazione di forza, proprio come viene specificato dal numero di proiettili a disposizione dei militari, il doppio degli abitanti di Gwangju. La brutalità e l’orrore non appaiono sui volti dei soldati, o su quello del presidente Chun Doo-Hwan, che non è segnato da «tanta crudeltà, brutalità, gusto omicida», ombre che si celano dietro a un’affabilità autoritaria.
La domanda martellante che corre lungo tutto il romanzo riguarda la definizione di umanità: come si può articolare? Perché alle volte gli uomini agiscono crudelmente, mentre in altre occasioni si uniscono, lottando con coraggio e altruismo per uno scopo comune? Naturalmente non esiste soltanto una risposta, anche se la collettività dispone di una coscienza tale per cui la barbarie di pochi viene esacerbata e mitigata. Questa auto-coscienza prende forma, soprattutto, nell’impeto solidale che circonda gli studenti manifestanti, che percepiscono «la sublime enormità di un singolo cuore, che pompava sangue in quell’arteria e nelle [mie] vene». Nonostante ciò, però, le pratiche degradanti dell’esercito lasciano dubbi inestricabili alle generazioni future, che si interrogano su quale sia il destino del genere umano, e si domandano se, di fatto, queste forme di collettività e di dignità sociale non siano nient’altro che un tentativo di autoilludersi speranzosamente che il massacro e la distruzione non siano l’unica via possibile.
I reduci della tragedia sviluppano una sindrome del sopravvissuto che è impossibile da superare. Gli effetti fisici e psicologici hanno risvolti che continuano a essere martellanti. È però il senso di colpa instillato dalla persistenza sulla Terra a dare loro uno scopo comune: ripristinare la memoria di ciò che è successo.
Particolarmente significative in tal senso sono le parole dell’autrice stessa che, nel tentativo di ricostruire i fatti di Gwangju, sua città natale, confessa le difficoltà nel riprendere la sua vita normale e nel partecipare ad un matrimonio: «C’era qualcosa di scandalosamente inappropriato negli invitati, nei loro abiti appariscenti, nel modo in cui ridevano come se andasse tutto bene. Come era possibile una scena del genere, quando così tante persone erano morte?». In questa frase riecheggiano le parole pronunciate da Han Kang in occasione della vittoria del Premio Nobel per la Letteratura, con il suo conseguente rifiuto di una conferenza stampa per l’occasione: «Non festeggio mentre la gente muore in guerra […]. Con la guerra che si intensifica giorno dopo giorno e le persone che muoiono di continuo, come possiamo organizzare una conferenza stampa di celebrazione?».
La memoria diviene quindi essenziale,: deve oltrepassare la censura e i decenni di alterazioni e violazioni per poter giungere al suo ripristino integrale. Sarà proprio Kang a carpire la storia dal fratello di Dong-ho e a metterla su carta, intrecciandola con le vite degli altri personaggi. Essenziali sono le parole con cui il fratello dà il consenso per la pubblicazione all’autrice: «Per favore, scriva il suo libro in modo tale che più nessuno possa oltraggiare ancora la memoria di mio fratello».
E forse, in parallelo all’atto umano della crudeltà, c’è proprio quell’humanitas che viene custodita dalla scrittura e dalla sua funzione testamentaria. La persistenza della memoria è la qualità oppositiva della violenza: entrambe si imprimono nella collettività e nell’umanità, che ondeggia costantemente tra il male intrinseco e la sua purificazione. Forse, allora, Terenzio aveva ragione: niente di ciò che è umano può esserci estraneo.
di Carola Crippa