“Automi, bambole a fantasmi” – Hoffmann e gli ingranaggi del fantastico perturbante
Si possono raccontare le più recondite strade di un sogno? Si possono avvertire allo stesso tempo gioia e un perturbante senso di inadeguatezza, anche quando non siamo protagonisti, ma semplici ascoltatori?
Hoffmann riesce in quest’impresa, scovando l’anima di noi lettori: ci parla direttamente, come un commediante col suo pubblico, per raggiungere il più buio dei nostri segreti, o ciò che spesso non risulta chiaro nemmeno a noi. Come un serpente, in sogno, striscia tra i solchi dei nostri pensieri. Il sogno è un territorio affascinante e ambiguo, poco tangibile, ma non per questo meno immanente alla realtà: è la terra sconosciuta del quale questo autore fondamentale al Romanticismo tedesco è il principale pioniere.
Recentemente, mi sono ritrovata a passeggiare, immersa in queste strade fantastiche, misteriose, magiche e inquietanti che Hoffmann ha brillantemente disegnato grazie a L’Orma Editore, che il 26 giugno ha pubblicato la selezione di racconti Automi, bambole e fantasmi, nelle nuove traduzioni di Eva Banchelli, Simone Costagli, Alessandro Fambrini, Matteo Galli e Riccardo Morello. L’edizione riprende alcuni dei Notturni, l’opera maestra di Hoffmann che contiene i tratti principali della sua poetica. Nel 1882, Heinrich Heine giudicò l’opera hoffmanniana in questo senso in una delle Lettere da Parigi: «Il diavolo stesso non saprebbe scrivere nulla di così diabolico».
Tuttavia, relegare Hoffmann alla sola letteratura romantica gotica o nera, potrebbe sembrare riduttivo; di certo, può essere definito il primo autore tedesco a manifestare una certa estetica del brivido, ma è più veritiero credere che i suoi racconti sconfinino verso il mondo del fantastico perturbante: alcune delle figure che troviamo nelle narrazioni, oltre a quelle enigmatiche e inquietanti, sembra facciano parte del mondo delle fiabe, che prendano vita durante la notte o includano animali parlanti. Nondimeno, è la ripetizione di alcuni leitmotiv a rendere le narrazioni umanamente logiche e sovrannaturali allo stesso tempo – il che probabilmente ha reso Hoffmann da una parte incompreso e dall’altra un uomo di genio.
Sono gli occultisti, gli astronomi, i costruttori di bambole e di automi le figure di ogni racconto, i quali spesso si lasciano ammaliare da donne apparentemente angeliche che celano un’ombra misteriosa e demoniaca, o che vivono in case tetre e desolate; esperti di magnetismo (e di tutti i fenomeni associati, quali ipnosi, sonnambulismo, telepatia); topi a sette teste, schiaccianoci deformi. Un carnet di personaggi che in qualche maniera tornano sempre. La questione affascinante del racconto hoffmanniano, tuttavia, riguarda anche un’implicita e ripetitiva – ma in modo straordinario – schematizzazione del racconto.
Hoffmann è un maestro nel presentare, all’inizio della narrazione, un ambiente verosimilmente reale, dall’evidente pacatezza. Una cittadina tranquilla, un uomo giudizioso, una brava bambina. All’improvviso, per una causa non ben identificata, la narrazione si perde in strade confuse e nebulose e un dolce turbamento produce un lieve stordimento dei sensi: la cittadina tranquilla nasconde segreti diabolici, l’uomo giudizioso si innamora di una donna che si scopre essere una bambola e la bambina si perde nel mondo fantastico del re dei topi.
È a questo punto che Hoffmann chiama in causa i lettori: sia lui che noi siamo consapevoli che si sta compiendo, e si compirà, un evento straordinario e terrificante fino alla fine della storia, coinvolgendo probabilmente un mostro o un paesaggio raccapricciante, come nel racconto Le miniere di Falun:
Se alla luce del giorno l’enorme cavità offriva uno spettacolo agghiacciante, di notte, con una falce di luna che cominciava a brillare, la pietra spoglia si mostrava in tutta la sua crudezza, come se là sotto grufolasse e si agitasse, contorcendosi sul terreno fumante, una coorte innumerevole di mostri bestiali, un’orrenda progenie infernale che lanciava lampi con occhi di fuoco, allungando gli artigli giganteschi verso la povera stirpe degli umani.
Va sottolineato che, nonostante si tratti di storie misteriose, arcane, sconcertanti, Hoffmann racconta sempre di uomini; non di questioni sovrannaturali, ma di vicende relegate al mondo terreno: ciò che egli chiarisce è parte della nostra natura che all’epoca – probabilmente a causa dell’impostazione illuminista – veniva tenuta nascosta: «[…] Quell’immagine mi aveva aperto la strada del meraviglioso e dell’avventuroso che si annidano con tanta facilità nell’animo di un bambino. Nulla mi piaceva di più che ascoltare o leggere paurose storie di coboldi, streghe, gnomi e così via; ma al primo posto restava sempre l’uomo della sabbia, che nelle forme più strane e disgustose io scarabocchiavo con gesso e carboncino sui tavoli, sui mobili e alle pareti, dappertutto», racconterà Nathanael, ma non serve sottolineare che si tratta comunque di una porzione di realtà vista dagli occhi di un bambino.
Inoltre, tra i leitmotiv logici di strutturazione narrativa, ricorre spesso una metanarrazione finale che sfilaccia il nodo asfissiante che ci ha turbati fino a quel momento. Grazie all’espediente del racconto nel racconto, Hoffmann svela una fetta del passato del “mostro”, rendendolo infine teneramente umano.
Altre volte invece, l’individuo viene schiacciato in maniera inesorabile da quello che può sembrare un evento sovrannaturale, ma che non è altro che un tentativo di rifuggire la realtà – senza essere in grado di sopravvivere. Il Romanticismo ha di certo avuto il merito di aver distrutto l’impostazione illuminista incentrata sull’empirico lume della ragione, aprendo la strada al culto della fantasia, dell’inventiva e dell’immaginazione, la quale ha anche deresponsabilizzato l’individuo dal punto di vista inconscio. Tuttavia, alcuni degli uomini che Hoffmann racconta – da grande esperto del genere umano – divengono incapaci di orientarsi in questo mondo, finendo inesorabilmente per arrendersi agli eventi. Il fantastico perturbante è solamente il velo di finzione che Hoffmann getta sulla spietata e crudele realtà.
Probabilmente dipende tutto dal nostro sentire, dalla nostra capacità di adattarci all’orrifica e disperata tangibilità del mondo. Se siamo in grado di accettare la delusione di non appartenere al mondo dei re e delle regine, di non essere i veri conoscitori degli angoli bui del centro della terra; ma che allo stesso tempo abbiamo la costante necessità di staccare i piedi da terra e desiderare di conoscere una donna meravigliosa, dal pallore estatico, di perderci nei meandri di una natura cupa, spaventosa e fantastica; allora avremo quel modo di sentire che Hoffmann riesce a tramutare così elegantemente in pagina. Lo confermerà lui stesso nella sua novella Signor Formica, quando – identificandosi con Salvator Rosa – tra le righe, manifesta la sua poetica:
Non nella grazie scherzosa di verdi praticelli, di campi fioriti, di boschetti odorosi, di fonti mormoranti – no, a lui la natura si rivela nell’orrore delle rocce gigantesche, di spiagge solitarie, di foreste selvagge e inospitali; e non il sussurro di venti serotini, non il mormorio delle foglie, la voce che egli sente è il frastuono dell’uragano, il rombo della cateratta. Al cospetto dei suoi paesaggi deserti e degli uomini stravaganti, selvaggi che vi si aggirano o soli, o a gruppi, spontaneamente nascono i pensieri più paurosi: qui avvenne un crudele delitto; là fu precipitato nell’abisso un cadavere sanguinante…